C’è
una frase di Antoni Gaudí, estroso architetto catalano, protagonista di una
delle più vivide rivoluzioni nell’arte e nel pensiero novecenteschi, che dice: l’originalità consiste nel tornare alle origini. Emblematico che un ingegno tanto versatile
e proiettato fuori dai propri confini, destinato ad attraversare
mondi e culture diversi e in quella diversità per l’appunto essere capito e ammirato,
esprima la sua idea d’innovazione nella stretta, imprescindibile consuetudine
col passato e con ciò che presiede al nostro affacciarsi alla vita. Senza aver
ben in mente le proprie radici è difficile tracciare un percorso, dunque comunicare
qualcosa di sé agli altri, ma anche a se stessi. L’iniziazione al viaggio ha
bisogno di contenuti, la linfa che scorre in noi da quando siamo bambini e con
cui sempre aspireremo a dissetarci. I seni materni e l’aria che respiriamo nel
luogo che veglia sui nostri primi passi. E le parlate dialettali che ci
accarezzano al pari dei canti di culla. È in questo lembo terreno, fra i visi e
le voci che lo popolano, a germogliare la nostra semenza e assorbire i
nutrimenti che l’accrescono. Questo sottile incanto penetra in noi molto più di
quanto lucidamente ci è dato considerare cosicché a quegli sprazzi di
beatitudine tenderemo sempre, anche quando ci sembrerà di averli dimenticati,
anche quando tornarvi non sarà possibile. Se il tema del νόστος da Omero al
tardoantico ha ispirato le pagine forse più celebri del racconto epico, lanciandosi
poi alla conquista della modernità, è perché suscita un bisogno umano inesauribile.
L’archetipo del ritorno è il viaggio per eccellenza; racchiude rive sconosciute
ma sollecita la poesia domestica che portiamo nel cuore. Così Ulisse, in lotta
tra demoni e paure, vince ogni prova per la nostalgia della casa – perché essenza
del νόστος è la nostalgia, il desiderio di ritrovare quel che si è perduto.
Tornare, rivedersi, recuperare frammenti di vita che ci siamo lasciati alle
spalle, senza i quali la nostra presenza vacilla. Così Ovidio spera
continuamente che la pena dell’esilio sia mitigata e di rivedere, un giorno,
Roma. Così Rutilio Namaziano sfida i pericoli delle invasioni, il dolore causato
dalla vastità delle rovine che ricoprono l’impero e torna in Gallia, perché
vuole scoprire cosa resti dei luoghi della sua nascita, dove si posò il suo
sguardo di bambino, unica scialuppa cui aggrapparsi in mezzo alle tempeste del
crollo e della decadenza.
Eppure,
anche negli abissi della perdita, il faro degli affetti, dei ricordi, dei
venerati idoli, che noi almeno stimavamo tali e che ci hanno cresciuto con la
loro bonaria saggezza, resiste. Alessia Rovina ci conduce per queste terre
sentimentali, in un toccante racconto dove miti rustici, poesia, dialetto sono
le solide radici che reggono l’albero della vita.
(Di Claudia Ciardi)
(Di Claudia Ciardi)
Paternità - Foto di Alessia Rovina ©
Quel necessario tornare
Di
Alessia Rovina
Per la rubrica «L’Argonauta»
Nel seno di ogni
partenza, o ri-partenza, per qualsiasi viaggio sta il rapporto con la banchina
che si è dovuta – o voluta – lasciare. Tenendo nel cuore il bellissimo Elogio
alla fuga di Henri Laborit, per chi come me si sente da sempre un Argonauta
destinato a trovare una meta-altra, arriva poi pure un momento in cui si è
costretti a riavvolgere il gomitolo del proprio trascorso, a dover edificare
una qualsiasi dimora, su una base però che sa di origine. Origine, come
ci insegna la sua stessa etimologia, ha il significato di nascita e di
provenienza: un nucleo potenzialmente eterno e profondamente non scelto, non
selezionato, in barba alle tante distopie – talvolta tragicamente reali – che
ci illudono della possibilità di decidere come meglio manipolare le unicità di
chi dovrà originarsi. Un punto di energia centrifuga e centripeta, da
cui dobbiamo emanciparci per non rischiare di marcire – così avvertiva
il lirico Pindaro nella sua Pitica IV a proposito dei nostri mitici
marinai, pronti a pagare con la vita la scoperta del proprio valore – e un luogo a cui dover ritornare, per quella, a
parer mio, eterna riconciliazione con il passato che è la vita. La mia base è
quel lembo di terra pianeggiante e rustica, ubertosa e afosa cantata dal
Virgilio più profondamente commosso – quello degli espropri sofferti e del
fitto cicalare estivo – e, in tempi molto più vicini a noi, dal Guareschi e dai
suoi adattamenti cinematografici, che in quella striscia di piccolo mondo antico fa litigare e gioire quegli
idoli novecenteschi profondamente vivi nel cuore di chi, come me, qui cresce, e
inizia a sognare. Vantiamo qui una porzione della prodigiosa
varietà dialettale propria della nostra bella Penisola, lingua arcaica e spesso incomprensibile, regolata da strane grammatiche
che abbondano negli armadi tarlati dei Nonni, con cui la sapienza e la poesia
si tramandano, e non solo in casa. Poche date qui sono pari al Natale. Una, è sicuramente
il 29 Giugno. È il giorno in cui cade la festa
patronale dei Santi Pietro e Paolo, non i veri protettori del Paesello, ma i
custodi della speciale distribuzione dai campi del frutto locale, pesante sfera
di aspettative: il melone – nel nostro dialetto del basso Mantovano: al
mlòn. Come in un antico rituale panico, pienamente aderente al nostro génos mediterraneo, il popolo si riunisce, senza
distinzione alcuna, e si prepara a godere di questa grande celebrazione
terrena, non senza l’intervento dei nostri cantori, aedi anziani, con la pelle
raggrinzita dal lavoro campestre di una vita e vestiti di cenci colorati,
esperti sapienti e custodi del nostro bagaglio di fantasticherie. Il nostro
Omero è da sempre Pèdar, l’om da la gamba stanca, un prodigioso
musicista e poeta dialettale, conquistatore di grandi riconoscimenti,
intrattenitore di quella comune preghiera di ringraziamento alle divinità
ctonie ancora presenti, intervenute nella rinascita del frutto del Sole, ancora
propizie con un paese che vorrebbe abbandonare la propria origine, ma
che trova pur sempre piena identità in quei
tramonti magenta che si distendono, stanchi, sugli interminabili campi di
grano. L’estate, folta di zanzare e della Golena fluviale che rivive dopo il
pesante bagaglio delle nebbie, è sfrontata, come in quella parte più vera
dell’Italia, e batte la sua lingua nei filòss, equivalente padano dei
simposi e del ciacciàre toscano, in cui un qualsiasi giro di Quartiere
diviene un poema epico fatto di tappe burlesche tra quei circoli di sedie
legnose in cui le anziane risdùre –
meraviglioso termine il cui significato è ristoratrici, concordi con lo
spirito di queste mogli rustiche, forti e accoglienti – ancora avvolte nei loro
grembiuli che sono impregnati del profumo della noce moscata e del cacio,
interrompono sicure il tragitto del viandante, sconosciuto e conosciuto, per
saluti, doni mangerecci e sempre immancabili pettegolezzi di paese. Femio e
Demodoco sono così la sciura Maria e la sciura Rina, e le imprese
eroiche, quelle vere, diventano le rivolte dei partigiani nelle vie dei
Giardini, il lavoro duro, nobile, per mantenere le famiglie, il continuare a
sognare nonostante un mondo che loro per prime vedono andare in frantumi, prima
ancora che i giovani vi si affaccino, e le convivenze dei preti con gli storici
comunisti del Paesello. Le novelle riportate, i proverbi, saranno compagni
inaspettati di tutta la nostra vita, tanto che, se faremo una scelta di vita
radicale, naturista, e per così dire francescana, saremo a la manéra ad
Ramòn, la nostra vedetta del Grande Fiume, un anziano signore da sempre
stabile in una roulotte sullo Spiaggione del Po, mentre, se sceglieremo come
Don Abbondio di stare dalla parte del più forte, nascondendoci nei nostri
comodi, avremo deciso di stàr da la banda dal furmantòn, di stare dal
lato del granturco, al cui fittizio riparo possono pensare di star sicuri una
moltitudine di esseri viventi. Qui, l’estate è spietata e non lascia scampo.
Sorride volgare nella sua pesante calura, ed elargisce frutti nella stessa
misura con cui poi si tramuterà in nebbia, che tutto confonde e cela. Unica
salvezza, allora, sarà in Novembre arrivare al rogo del brüsa la vécia,
una consuetudine non solo Padana, ma anche Bolognese e Romagnola, e in quanti
altri luoghi, Ispanici, Calabri ed Ellenici, nel cui rituale incendio del
vecchio, dell’infruttuoso e dello sterile, ci si prepara ad accogliere una
nuova vita. Ancora dura e ancora nascosta, ma foriera di nuove avventure. Un
dolce e struggente Amarcord, quel nostro singolo romanzo di formazione
eterna. Ecco, le origini: un debito imposto, non scelto, con cui ripetutamente
saldare il conto, stimandolo necessario nelle sue più acute asperità, nei suoi
inciampi, giudicandolo prezioso, per il potenziale che dona, che è sì un
tornare continuo… Ma è anche un sentiero che porta nelle profondità più vere e
più ricche del nostro personale ed irripetibile destino.
(Di Alessia Rovina, 26/06/2020
classicista e appassionata di teatro,
account
twitter: @rovina_alessia)