Eroe
simbolo della grecità, Eracle è tuttavia un personaggio di difficile
caratterizzazione tragica, tanto che la sua figura resta principalmente
associata ai drammi satireschi. Euripide, lo scrittore che più ha dato voce
alle tensioni psicologiche e alle lacerazioni del thumòs (θυμός, spirito), ha avuto il coraggio
di celebrarlo nel suo umano annientamento. La tragedia che ne
scaturì, rappresentata nel 423 a. C. – anche se la data non è certa – fece molto scalpore per la crudezza con
cui veniva messo sotto gli occhi degli spettatori lo sprofondare di
un’esistenza dalla fulgida gloria tratta dalle proprie imprese alla solitudine
disperata che vede nel darsi la morte l’unico esito possibile. L’autore greco
innovò anche la struttura mitica, rovesciandola. La follia che colse Eracle,
così da spingerlo a uccidere la moglie e i propri figli – un’empietà così
grande che perfino Lyssa, istigata da Era, avrebbe voluto opporsi al comando divino – si colloca alla fine delle fatiche e non come atto cui segue
l’espiazione attraverso le avventurose gesta. C’è forse in questa tessitura un riflesso anche politico. Atene, gloriosa capitale ellenica, nel massimo della sua potenza economica, si è gettata da quasi un decennio in una guerra destinata a dissolvere il suo primato. Nel 430 a. C., appena iniziato il conflitto, una pestilenza aveva aggiunto debolezza e lutti a una situazione che non prometteva nulla di buono. Gli aristocratici, per lo più contrari all’apertura verso l’esterno promossa dai commerci marittimi, pretendevano un imprecisato ritorno ai valori tradizionali; si fecero perciò promotori di una lotta interna senza quartiere, cercando di favorire con ogni mezzo la vittoria del nemico. Questo efferato dilaniarsi entro la pòlis – la forza che si trasforma in debolezza – con ogni probabilità contribuisce a suggerire a Euripide la sventura eraclea. Il forte cade perché questi sono i piani di una volontà superiore, e la sua sconfitta è così soffocante, così insopportabile che l’unico esito sarebbe morire.
Dunque, il celebre drammaturgo ha letteralmente
riplasmato il patrimonio tradizionale, investendo se stesso del ruolo di
iniziatore del ritratto tragico di Eracle nonché di una profonda riflessione su
come chi appaia nel massimo del proprio fulgore, quasi della propria invincibilità,
possa essere all’improvviso travolto. Nella vicenda di Eracle infatti la
violenza muta repentinamente di segno direzionandosi contro colui che fino a
quel momento l’ha praticata con successo, mai pensando di soccombere.
Stando
a quel che ci è stato tramandato, sui connotati di tale vicenda mitica così riscritti
non interverranno altri fino a Seneca che lo farà in un periodo della storia imperiale
romana in cui la circolazione delle teorie epicuree e stoiche aveva riacceso
l’interesse sul tema del suicidio e dell’amicizia quale rimedio alla
sofferenza. Il rovesciamento che distrugge la vita di Eracle trova nell’umana
comprensione il suo riscatto, la cura capace di lenire il pianto, la via di una
salvezza che l’eroe, pur in preda alla più fosca disperazione, sceglie di
percorrere.
A
conclusione di questo excursus sulla tragedia greca, ideato dalla classicista
Alessia Rovina che ha contribuito a farci osservare gli eventi di questi mesi
complessi invitando a sostenerci all’immensa architettura del teatro antico, l’autrice offre un’articolata lettura dell’intreccio euripideo, proponendo delle preziose
chiavi d’interpretazione per una riscoperta del testo.
(Di Claudia Ciardi)
Chiaroscuro - Fotografia di Alessia Rovina ©
Declinazioni
di solitudine III - Eracle ed Anfitrione
Per
la rubrica «L’Argonauta»
Di Alessia Rovina
Tebe
è una città destinata alla dannazione. Il principio estremamente diffuso nella
cultura greca – e non solo, basti pensare a certi luoghi della letteratura
ebraica preesilica – dell’ereditarietà
della colpa non lascia scampo agli sventurati regnanti: per una maledizione
scagliata dal dio Ares contro Cadmo una
dinastia di sciagurati è condannata al disfacimento e all’annientamento, spesso
dopo illusori successi – si consideri l’estasi tirannica di Penteo, o la
soluzione dell’enigma della sfinge da parte di Edipo – in un protrarsi
dell’oscura ed antica macchia.
Il
mito di Eracle vanta una fama abbacinante. La misura dell’eroe, ieri come oggi,
si fonda prevalentemente su di lui, archetipo culturale condiviso con la
civiltà etrusca e fenicia, oltre che sumerica ed ebraica. Forza taurina datagli
dalla sua natura semidivina – il padre è Zeus, che giacque con la bellissima
Alcmena con un inganno formidabile – bellezza sfavillante, coraggio
prodigioso. Eppure, anche un astro come lui, che parrebbe predestinato alla
gloria senza troppi sforzi, una volta calato nella dimensione dell’immanenza, è
marchiato da una grande costante: la prova. “Le Fatiche di Ercole” sono un modo
di dire mutuato dalla realtà mitica che lo vede protagonista di dodici prove
sovrumane impostegli da Euristeo per volere divino. Il novero di queste lo
porta lontanissimo da Tebe, città maledetta che medita nuovo sangue, patria
della moglie Megara, luogo dell’azione di
un dramma geniale ed annichilente
composto da Euripide, con il quale concluderemo la rassegna di ascolto della
solitudine.
Euripide
rielabora la materia erculea discostandosi dalla vulgata a noi cognita.
Anzitutto, viene sovvertita l’usuale collocazione cronologica delle Fatiche;
secondariamente, viene modificato radicalmente il ruolo e lo spessore del padre
mortale, Anfitrione. Infine, Eracle non è ritratto in alcuna impresa di valore.
Qui, ragionare dell’eroe per antonomasia è un esercizio volto all’uomo: ben
prima del suo arrivo in scena inizia la degradazione della figura di Eracle,
nel momento in cui il tiranno Lico insinua dubbi sulla effettiva realizzazione
delle fatiche (v. 151 ss.): nessuno l’ha visto all’opera, nessuno era presente,
nessuno può raccontarle dall’esterno, dotato della prova dell’ὄψις, già
compresa come requisito necessario per l’attendibilità delle parole umane. È
dunque probabile che la menzogna ammanti Eracle, e che un grande disonore si
profili sul genitore Anfitrione, sulla moglie, ma soprattutto sulla sua stirpe,
i tre figlioletti che attendono un padre partito verso le fatiche quando erano
ancora infanti.
Un
altro bersaglio è però mira della disgustosa vanità di Lico: Anfitrione. Un
vecchio tra vecchi – il coro è formato dagli anziani di Tebe – il cui
attaccamento alla vita ed alla speranza è guardato come ammattimento persino
dalla giovane e bellissima nuora Megara, ma che si dimostrerà un personaggio
straordinariamente importante e senza tempo, in questo roteare di destini
inquieti e sempre in bilico tra l’esistenza e la morte. Anfitrione,
padre adottivo di Eracle, esalta con la sua mitezza il dono di aver condiviso
la moglie Alcmena con il sovrano olimpico, Zeus, protettore di tutta la sua
stirpe. È davvero incredibile constatare come poi sia lui stesso ad imboccare
la via dell’aperta blasfemia, demistificando ed annientando la presunta onnipotenza
dell’Olimpio, addirittura riducendolo ad un mentecatto, molto al di sotto delle
possibilità dell’uomo stesso. Un dio che non è apprezzabile quanto Anfitrione,
in materia paterna: quasi un monito alla differenza rappresentata dalla
biologia e dalla cura costante.
Anfitrione
è a tutti gli effetti un padre: amorevole, arreso ad ogni evidenza desolante
quanto all’evidenza affettiva. «Figliolo! Figlio mio infatti tu sei, pur in
tutto il male!» (v. 1113), davvero sconcertante che un uomo sia così capace di
dilatare il proprio cuore, l’unico da cui venga un sentimento di compassione
autentica e tangibile, giacché le figure divine dominanti sono una messaggera
malvagia tanto quanto la sua perfida mittente, Era, motore di una inspiegabile
vendetta, che trascende ogni eventuale contesa umana, e una figura tremenda e
alla fine anch’essa assetata di sangue, Lyssa – a questo proposito vorrei
davvero segnalare la resa teatrale di Emma Dante al Teatro Greco di Siracusa
del 2018, al centro di aspre polemiche quanto di euforici elogi: nell’audacia
sottesa alla sua scelta artistica vi sono momenti veramente eccezionali, tra
cui sicuramente figura la resa estetica di Iris e Lyssa, inquietanti donne
guerriere dalle braccia smodatamente lunghe e dai movimenti a dir poco angoscianti,
perfette burattinaie che tolgono il respiro con il loro agire inconsulto e
disumano.
Disumano,
però, è l’aggettivo che meglio caratterizza anche Eracle nel nucleo drammatico.
Un validissimo contributo di Antonietta Provenza del 2010 indaga la «bestializzazione»
subita da Eracle nel dramma euripideo, tramutandosi nella vittima che Era dal
principio aveva destinato, in una geniale quanto problematica καταστροφή del
sacrificio rituale. Eracle è carnefice, nel suo uccidere moglie e figli, ma in
realtà è vittima. Finalmente Era riesce a compiere il suo disegno malato,
sottraendo all’immolato ogni briciolo di dignità, ormai reso simile a toro
scatenato, autore della sua stessa rovina. Questa tragedia fa scaturire nel
lettore contemporaneo un disagio enorme, come è proprio della realtà tragica
greca.
Eracle
arriva trionfante, acclamato per le Fatiche, Eracle viene spietatamente reso
solo. Il paradigma della follia, dell’infanticidio, dell’uxoricidio, rendono
Eracle un reietto. Lui, fulgido semidio, è solo. Solo, infine, assuefatto al
dolore a cui si dice «radicato» (v. 1395), tenacemente aggrappato all’orrore
che lo ha posseduto durante il raptus folle. Anche Eracle, proprio come l’Aiace
sofocleo, miseramente legato ad una colonna, immobilizzato e col capo coperto –
paradigma tipicamente greco di impurità da celare – medita il suicidio. L’onta
abbattutasi su di lui è davvero imponente. Eppure, a dissuaderlo con forza, ad
irrompere nel quadro in cui disperazione paterna e filiale stanno subendo
l’ondata di dolore, è una conoscenza cara ed inaspettata: Teseo, mitico
fondatore d’Atene, che Eracle aveva poc’anzi condotto fuori dall’Ade. Teseo è
il rappresentante non solo del nume ateniese dinnanzi alla barbarie, ma è anche
simbolo virile della vita precedente di Eracle: con questa forza quasi omerica
scopre il volto per soffrire con l’amico a cui più è legato, ma è con la nuova
forza della parola che trascina l’annichilito Eracle verso il ritorno alla
vita, lontano dalla scelta di morire: molto più valoroso è vivere sopportando
l’agonia. Molto interessante dal punto di vista socio-culturale è la modalità
in cui viene convalidato il ritorno nel consorzio umano – e non più bestiale – di
Eracle: il diventare πολίτης, cittadino, tra l’altro non di una polis
qualunque, bensì della munifica Atene.
Accanto
però allo sforzo di ritorno alla vita a cui Teseo costringe Eracle – in questa
tragedia più che mai lontano dal pragmatismo eroico, abitatore di un luogo che
nessuno condivide – si profila un’altra solitudine, molto più particolare, non
protagonista eppure impossibile da ignorare. Anfitrione, unico a poter piangere
da incontaminato i cadaveri dei nipoti e della nuora, che con il suo enigmatico
e straziante «πότ’ ἐλθών;» (v. 1420) prospetta davanti a sé un’ulteriore e più complessa
mancanza: quella del figlio, che per un attimo di follia divina ha visto
sgretolarsi tutto, soprattutto la sua identità. Per questo, l’atmosfera che
avvolge il finale dell’Eracle è sospesa, ambigua. Non vivida, non oscura. Non
di redenzione, non di condanna. Ha il sapore delle ferite che hanno un percorso
di cicatrizzazione complesso, nascosto, mai lineare, ed i colori lievemente
foschi dei mattini primaverili, in cui la nascita dei germogli combacia con le
crepe e le spaccature del terreno, come scriveva il geniale T. S. Eliot. Quella
dell’Eracle è una terra desolata in cui le solitudini vengono momentaneamente
adombrate da re risorti e da vecchi tebani, ma in cui sostanzialmente i vuoti
permangono, e sono i veri protagonisti di queste penombre a dover fronteggiare la
difficoltà, talvolta, di essere umani.
Quis
hic locus, quae regio, quae mundi plaga?
Seneca, Hercules furens, v. 1138
(Di Alessia Rovina, classicista, studiosa di teatro)
Si
veda anche:
Declinazioni di solitudine (Eschilo)