10 dicembre 2014

Estanislao Pryiemski – Un polacco in Mato Grosso


Pre-war Warsaw

La storia di Pryiemski, viaggiatore, naturalista, esploratore, ma soprattutto personalità eccentrica, si può leggere in uno di quei libri che fino a qualche anno fa – nel caso di cui si parla la pubblicazione risale agli anni Novanta – ingrossavano collane tirate su in fretta, dove una bella foto di copertina cercava di farsi perdonare la mancanza di pregi letterari. Adesso non è raro incontrarne ciò che resta sui banchi di mercatini itineranti o tra le scaffalature di botteghe dell’usato, ed è in un posto così che mi è venuta tra le mani l’avventura di quest’uomo insolito, spirito essenzialmente solitario, posseduto fin da giovanissimo dal desiderio di uscire dal vecchio continente per vivere più vicino alla natura, in luoghi non ancora aggrediti dalla legge del profitto.
Questo ambiente lo ha trovato in Mato Grosso, raggiunto nel 1924 quando si decise a lasciare la Polonia. Aveva allora trentadue anni e non senza incappare nella disapprovazione dei genitori voltò le spalle a un futuro di amministratore delle proprie terre. C’è da chiedersi però se la scelta di Pryiemski, alla luce dei rovesci che coinvolsero la Polonia nel ventennio successivo, non si sia rivelata in qualche misura opportuna. È probabile che con l’invasione dei nazisti difficilmente avrebbe preservato intatti i suoi beni e una posizione di relativa agiatezza. Ad ogni modo non è dato sapere nulla sulle sorti dei suoi familiari, sulla vita che costoro seguitarono a fare a Varsavia, luogo delle loro origini, e nell’antica fattoria dove Estanislao trascorse le vacanze estive fin dall’infanzia. Il libro ho voluto leggerlo per questa strana commistione di eventi in cui un polacco di Varsavia, ancora giovane e con un avvenire assicurato dai suoi possedimenti, abbandona tutto per andare dall’altra parte del mondo, in un territorio quasi impenetrabile, il Pantanal, tagliato fuori dalle normali vie d’accesso e di comunicazione con cui siamo abituati a figurarci lo spazio del vivere. Dico la verità, speravo di reperire più notizie biografiche, soprattutto che fosse chiarito quel salto interiore all’apparenza assurdo e privo di coerenza che dal cuore dell’Europa ha fatto abbracciare all’autore un’esistenza precaria e molto grama sul piano delle risorse.
Tranne alcuni incarichi ufficiali, e comunque saltuari, presso il Museo Nazionale di Rio de Janeiro, infatti, Pryiemski ha vissuto alla giornata, praticando i suoi studi in proprio, oggi si direbbe da freelance, accanto ad attività di puro sostentamento, quali la caccia e la pesca, passando lunghi periodi insieme agli ultimi indios guatos che gli hanno sempre riservato un’ospitalità generosa.  
Di Pryiemski non esistono praticamente immagini, tranne un ritratto in seppia, riprodotto in quarta di copertina, accanto a un ema, lo struzzo dell’Amazzonia. È una foto nella quale appare ancora piuttosto giovane, certamente lontana dall’incontro con Gino Ballabio, l’italiano che andò a raggiungerlo a Campo Grande nella primavera del 1981. A più di duemila chilometri da Rio de Janeiro e dodici ore di treno surreale in mezzo al cosiddetto Mar do Xaraes, uno dei tanti nomi dati nel tempo al Pantanal, Ballabio si trovò davanti un ottantanovenne provato dalle febbri, sebbene ancora lucido e pieno di entusiasmo per i suoi progetti. Voleva continuare a scrivere, classificare animali e piante, salvare le voci della foresta. Questo anzi era stato da sempre uno degli obiettivi principali delle sue escursioni. Dalla Polonia aveva portato con sé un armamentario di imbuti cattura-suoni, registratori a piste, magnetofoni, apparecchi che ne solleticarono l’interesse a partire dai primi viaggi attraverso il continente europeo, quando era studente di agronomia applicata a Bruxelles. Anche di tale periodo si sa poco o nulla, non trovandosene traccia in annotazioni diaristiche o d’altro tipo, né Pryiemski vi indugia nel suo libro che potremmo definire di congedo, essendo il frutto di una testimonianza suscitata dall’incontro con Ballabio, nell’ultimissimo scorcio della propria avventura. Si può arguire che simili attrezzi e il progetto di catturare la voce della foresta, fossero il retaggio del suo personale confronto con le avanguardie europee del primo Novecento dove, tra le altre cose, si dette libero sfogo ai più vari e bizzarri esperimenti musicali. 
Immaginarlo in canoa, mentre scivola su fiumi in piena, in cerca di posizioni d’ascolto favorevoli, pare ben strano. E tuttavia, in questo conciso resoconto, la sua devozione per le voci della natura emerge con estremo vigore. È anzi il tratto distintivo di un carattere pervaso dall’attaccamento a un posto fragilissimo, i cui equilibri sono inesorabilmente minacciati. Proprio le notti divengono i momenti più vicini a quella rivelazione che Pryiemski sembra aver cercato nel corso della vita. Il Pantanal si fa allora centro di una solitudine sterminata ma anche di assoluta perfezione. Ornitologo colto e appassionato, le pagine più commosse le riserva all’osservazione e al canto degli uccelli amazzonici. Questi passi contengono perfino lampi di poesia. 
Restiamo dunque affascinati e confusi dal volo di gruppo della grande cicogna jaburè, dalle lunghe file di cormorani che sorvolano gli acquitrini, dagli stormi di anù che nelle prime ore dei pomeriggi assolati si cimentano in fragorosi concerti, dalla spietatezza dell’urubu nero, l’avvoltoio che si scaglia sulla vittima per finirla, dalla voce presaga della gallinella dei pantani, la saracura, che col suo nome di vaghe assonanze giapponesi si mette a cantare poco prima che inizi a piovere; e poi ancora l’anhuma, la chimera notturna il cui verso rimbalza lontano nell’oscurità, i neri cormorani appollaiati sugli alberi sbiancati dal guano, i biguasciri, di nuovo una parola che sa d’oriente, con cui i brasiliani si riferiscono a questi singolari posatoi d’uccelli. Scene di un aldilà orfico.
Ma vi è un ricordo che più di altri scopre i contorni dell’inconsueta sensibilità dell’autore. Un giorno, nella capanna di una famiglia india, due anatre si levano all’improvviso dal fiume e la bambina in braccio alla madre, tendendo le mani verso gli animali, dice in un soffio: «Mamma due anatre». Su uomini e cose scende l’armonia di chi ha appena afferrato un segreto. Pryiemski registra l’episodio come unico e irripetibile, l’attimo di una verità sciamanica. 
Sul rapporto con gli indios si sofferma non poco. Uomini disperatamente aggrappati a uno stile di vita messo in discussione, sopravvissuti ma non per molto ancora, ripete con sconforto quel bizzarro amico straniero, che ha deciso di condividere con loro cibo e sorte. Suo amico fraterno, l’indio Toenaro, è stato per lui una guida fedele, spalla, scorta, complice, maestro.
Non mancano infine delle sagge stilettate contro l’espansione demografica. Un problema di cui gli occidentali parlano con sconvolgente ipocrisia. Anzi, a essere precisi non ne parlano. È questo infatti un argomento tabù, perché l’essere umano nelle società considerate progredite è prima di tutto un consumatore, quindi serve virtualmente a mantenere elevata la domanda di beni – ma nel mondo globale nessuno è fuori dal meccanismo. Non ci viene mai in mente che le risorse di cui disponiamo sono limitate, e la terra non può reggere un aumento di popolazione più che esponenziale. Il vero attaccamento alla vita lo si dimostra con meno falsità su questi argomenti. Se la vita la vogliamo preservare davvero, insieme all’ambiente che la ospita – e non si tratta di due cose separate, come troppo spesso si lascia intendere – bisogna imparare a parlarne in maniera un po’ più svincolata da certi dogmi. Di quale benedizione dovrebbe trattarsi, se un bambino si affaccia in un mondo sfruttato, depredato, sovvertito, annientato?
Pryiemski ha il coraggio di porre queste domande a viso aperto e con estrema semplicità. Un punto di vista che in genere si riscontra in coloro che hanno sperimentato cosa significa vivere in natura, faticare per procurarsi il necessario, sapere che si può contare sulle proprie forze e poco altro. Una lezione che noi, inguaribili geocentrici veterocontinentali, abbiamo completamente smarrito.

(Di Claudia Ciardi)  


Estanislao Pryiemski
Le voci del Pantanal
A cura d Gino Ballabio
Piemme, 1998



4 dicembre 2014

Holzwege - Questione di sentieri





La seguente riflessione nasce attorno a una frase di paternità ignota che, va detto, non è proprio un esempio di chiarezza anzi, posto che si venga in qualche modo rassicurati sul senso, non è del tutto condivisibile, ma invitante comunque a sviluppare un ragionamento sul camminare.
«Sulle montagne si possono trovare centinaia di sentieri che portano tutti nella stessa direzione, non importa quale decidiate di prendere. L'unica perdita di tempo è quella di colui che cammina in lungo e in largo, dicendo a quelli che incontra che il suo sentiero è sbagliato».
Riporto le voci dei tre commentatori sotto forma di variabili. 

x: Perplesso.
y: A che proposito? 
x: Riguardo la temerarietà delle affermazioni.
z: Che si imbocchi il sentiero "giusto" o quello "sbagliato", il passaggio delle nubi sulle montagne non delude mai.
x: L’errore grave di questo scritto è che nella natura le parole giusto e sbagliato sono senza virgolette.
y: Sbagliato senza virgolette, la parola "giusto" non c'è. Ho cercato questo scritto un po' dappertutto ma non ho trovato una vera e propria fonte.
z: Le virgolette stanno a indicare la relatività di due concetti che, come dici tu, non sono per l'appunto dati in natura e neanche nella vita dell'essere umano. Cosa sia giusto o sbagliato nessuno lo sa, il bello è mettersi in cammino.
x: Veramente ho scritto proprio il contrario. Ma va bene.
In natura se si prende il sentiero giusto si torna a casa. Se si piglia lo sbagliato è meglio, se c’è nebbia, avere il sacco a pelo. In Italia escono ogni anno 13000 titoli nuovi circa.
[L'incauta “z” aveva avuto l’ardire di presentarsi poco prima come soggetto in forze all’editoria]
z: Lo dirò senz’altro al mio editore. Quanto ai sentieri, mi è capitato più di una volta di imboccare quelli sbagliati, ma quando ormai pensavo di essermi persa, ogni volta mi sono ritrovata in un luogo assai migliore.

Al di là del tono di fondo piuttosto pugnace, e la materia non mi pare cosa su cui accalorarsi, questo breve confronto mi ha stimolata a scriverne. È evidente che “z” gioca sul filo della metafora. Assurdo sarebbe infatti prendere alla lettera la frase citata all’inizio. I sentieri in montagna non vanno affatto nella stessa direzione, alcuni si perdono nel nulla, altri sono semplicemente impraticabili per le ragioni più diverse. Invece, postulando che alla base dell’affermazione vi sia l’idea che il viaggio è bello per sé, e dunque vale la pena affrontarlo, anche se questo comporta incertezza e forse perfino incoscienza, allora l’insieme del discorso diviene più congruente. Nell’identico procedere dei sentieri verso la meta, bisogna leggere, credo, quel pungolo a mettersi in strada che l’essere umano, qualsiasi sia l’epoca o la latitudine di provenienza, possiede come uno dei suoi istinti. 
È curioso che nel dialogo riportato, la necessità di accogliere sotto forma di metafora quanto si dice non venga presa in considerazione. Ma vi è pure un ulteriore aspetto che sollecita a soffermarsi sulle parole. “Giusto” e “sbagliato”, virgolettati per introdurre alla via metaforica, sono certamente due concetti basati sull’esperienza umana. Quindi, anche fuor di metafora, dire che in natura le virgolette non ci sono equivale a sostenere che il cielo è azzurro; sì, azzurro al nostro occhio. La natura, dal suo punto di vista, non contempla affatto questi due concetti. L’uomo con il fraintendimento che ne deriva, glieli affibbia in totale disinvoltura. Del resto è l’unico modo che ha per immaginarla. Considerarla anche solo parte del suo ragionare, per quanto polo opposto e incomprensibile e depositario di forze minacciose, implica da parte sua l’inserimento in un sistema di pensiero che da se stesso volge all’esterno.
L’uomo traccia le sue strade, interiori e reali, ovunque ritenga opportuno, a volte non senza forzature o aggressioni; anzi proprio da questo atteggiamento spesso manchevole della ricerca di una complicità con la natura, ossia di far arretrare se stesso, vengono nefaste conseguenze. Dunque, socraticamente parlando, cosa sono il giusto e lo sbagliato in assoluto l’uomo non è in grado di saperlo. Cosa siano per la natura è domanda priva di fondamento, perché presuppone vestire la natura di panni che non può indossare.
E siccome, benché s’illuda, la riflessione umana è necessariamente limitata, sarà pure il caso di non interrogarsi troppo su quelle vie che, almeno in apparenza, non ci portano a nessuna meta. Ce le ha descritte magnificamente Martin Heidegger, battezzandole Holzwege, alla lettera “sentieri del legno”, in quanto servono ai boscaioli a portare la legna fuori dal bosco e quindi si interrompono dove gli alberi sono stati tagliati. Con tale metafora Heidegger voleva affermare che non esiste un’unica via per pensare, ma che tutte hanno una loro utilità e legittimità.

(Di Claudia Ciardi)


Torre di Caprona - Monti Pisani

30 novembre 2014

Intervista a Paolo Arduini


Mi sembrava necessario per questo mese concentrare la discussione sul dissesto idrogeologico. I ‘bollettini di guerra’ venuti da Genova ma anche da molte altre parti d’Italia hanno riacceso tanti interrogativi. Purtroppo ho dovuto constatare, nel corso dei miei scambi con quanti sono stati colpiti dal disastro e con attivisti, che c’era molta stanchezza e poca voglia di mettere su carta qualche considerazione. Se fossi un amministratore del territorio, questo sentimento diffuso in maniera così capillare, mi susciterebbe non poche preoccupazioni. Siamo inequivocabilmente davanti a un distacco dettato prima di tutto dalle difficoltà materiali in cui migliaia di persone si sono trovate, dalla rabbia per aver denunciato in tempi recenti le criticità (il caso di Carrara mi pare emblematico) senza ricevere risposte adeguate, e infine anche dall’idea che “ormai è tutto inutile”, il che ha comportato e comporta l’isolamento di migliaia di cittadini i quali non riescono più a pensare se stessi come parte attiva di un contesto.
L’esito dell’ultima tornata elettorale fa spavento. A giudicare dal clima che, seppure su scala minore, ho percepito nelle settimane precedenti, per cui chi ancora ha qualcosa a cui attaccarsi va avanti a testa bassa e senza far motto, e chi non ha più nulla ha perso anche la voce, il crollo non poteva non attendersi. Un astensionismo così alto è uno schiaffo in pieno viso alla politica di qualunque colore. E il premier, secondo me, è caduto in un errore marchiano, commentando i risultati. Minimizzare i dati sull’astensione può sembrare un modo risoluto attraverso cui prendere di petto l’onda del dissenso, che per questa via si è espresso. Ma in una compagine sociale già estremamente sfilacciata a causa del protrarsi della crisi e dei problemi ulteriori che la crisi accompagnano, il rischio concreto è di esserne travolti. Il dissesto del territorio non è tema secondario. Oltre all’impatto materiale sulla vita delle persone, ne ha un altro assai più profondo in chi non ne è colpito direttamente, a livello psicologico. L’impressione di vivere in una “casa” che crolla e verrà spazzata via, suscita paura, disorientamento, ma anche il bisogno di essere ascoltati da chi opera nelle amministrazioni centrali e locali. Se non si creano mai le condizioni di un incontro, se non si gettano le basi per un disegno di risanamento vero – la proposta toscana a “volumi zero” che blocca la deriva cementizia è un primo passo – se, insomma, ci si veste di decisionismo, lo si mangia a colazione, pranzo e cena, però poi non si versa carburante negli annunci, la disaffezione della cittadinanza andrà sicuramente messa in conto.   
In un dettagliato resoconto del 15 ottobre 2014 scritto da Sergio Rizzo per il «Corriere della Sera» si legge che lo scolmatore sul Bisagno a Genova è «appeso a un bando folle», un’espressione che rende bene le lungaggini burocratiche sull’opera di messa in sicurezza. L’articolo si sofferma quindi sulla previsione di durata dei lavori: 1846 giorni (cinque anni e un mese) per un costo di 40 milioni di euro. Ciò dà la misura di quanto tempo prezioso sia andato finora sprecato. Ma anche della rilevanza dell’investimento che, messo in rapporto con i danni prodotti dall’alluvione del 9 ottobre (l’ultima stima è di 60 milioni di euro per famiglie e imprese) dà un sapore ancora più amaro all’intera vicenda. In situazioni d’emergenza i ritardi creano una voragine economica da cui è difficile venir fuori, specialmente in una fase così stentata per il nostro ciclo produttivo. 
Nel caso genovese il progetto, dunque, c’è da tempo ma la volontà di praticarlo è di là da venire. L’acqua non si ferma e non si fermerà. Ce lo ha dimostrato anche negli ultimi due mesi. La natura non è né buona né cattiva, né giusta né sbagliata, come già un paio di secoli fa ci ricordava il nostro bistrattato Leopardi. Semplicemente si riprende lo spazio che le appartiene, dicendoci che l’incuria non paga mai.
Ospitiamo un breve intervento del professor Paolo Arduini, insegnante presso il dipartimento di latino di lingue dell’Università di Pisa, da anni impegnato nella difesa dei diritti del cittadino (rappresentanza, casa, lavoro) e sui temi di tutela ambientale contro l’abuso edilizio, i condoni facili, la cementificazione selvaggia. Con la generosità che lo caratterizza, messa a servizio dell’avventura redazionale «Luci sulla Città», e portata in diverse battaglie che hanno coinvolto anche personaggi importanti dell’attivismo culturale italiano, come Don Ciotti di «Libera», Milena Gabanelli, Marco Travaglio, ha risolto alcuni dei quesiti da me formulati in relazione ai recenti problemi.
Le sue parole sono, come sempre, buoni spunti di riflessione, nell’auspicio che altri abbiano voglia di ripartire da qui e levare una voce di protesta costruttiva. Il silenzio, infatti, non aiuta a sensibilizzare chi ancora non comprende la gravità del vivere in un territorio pesantemente inquinato e offeso.




La tutela del territorio passa necessariamente per la consapevolezza dei cittadini. La comprensione dei problemi è il primo elemento su cui edificare una comunità solida, che sia in grado di mettere a punto strategie efficaci per risolvere le proprie criticità.
Dovendo giudicare il grado di coscienza e impegno civile su questi temi in Italia, cosa minaccia principalmente lo sviluppo di tali aspetti e quali, invece, le conquiste che sono state fatte grazie al lavoro capillare e paziente di comitati e associazioni?

La coscienza non c'è o è sminuzzata in mille risposte particolari. Solo il movimento No TAV in Val di Susa ha costruito una "coscienza di luogo" (che è quello che vorremmo costruire qui a Calci, dove vivo ora), ma lo stanno massacrando militarmente, perché la coscienza di luogo richiede un'azione di attacco e difesa ma le forze sono impari.

Non appena è iniziato l’autunno abbiamo vissuto un vero e proprio stato di calamità a causa del continuo susseguirsi delle alluvioni. La Liguria, il basso Piemonte, Parma, Carrara, la provincia di Roma. Ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo. In un territorio a fortissimo rischio idrogeologico, tutela e prevenzione si sono rese latitanti per troppi anni. Quali considerazioni?

Banale, ma va ribadito: al primo posto ci sono le Grandi Opere inutili e costose, dove ci sono forti guadagni, legali e illegali poco importa, mentre la manutenzione e programmazione del territorio nessuno la farà mai, in un sistema fondato sul Dio Denaro.

La cementificazione è certamente uno dei tanti mali italiani. Il settore dell’edilizia che, fino a poco prima della recessione, figurava come uno dei volani economici della penisola, nasconde in realtà moltissime ombre e più di una responsabilità nell’attuale sfacelo del territorio. Che tipo di politiche bisognerebbe avere il coraggio di organizzare da subito? 

Rendere effettiva la chiacchiera sul recupero e sulla valorizzazione del patrimonio edilizio esistente; abbattere tutto il resto, offrendo alternative semplici e concrete a chi ci è rimasto "infognato".

I danni portati dal dissesto idrogeologico sono, sul piano economico, ingentissimi. Un esempio: 40 milioni di euro il costo dello scolmatore sul Bisagno a fronte di 60 milioni di danni stimati nell’alluvione del 9 ottobre. Si continuano a sostenere opere faraoniche quali la Gronda, per rimanere in territorio genovese, e la Tav. Perché, neppure a fronte dell’enorme difficoltà economica in cui ormai si dibatte il paese, e delle caratteristiche palesemente controproducenti di questi progetti, la classe dirigente non fa marcia indietro una volta per tutte?

Non possono fare marcia indietro, per il motivo appena detto, e in questo sono un sistema unico di affari e dominio, senza colore.

Nel corso delle emergenze la macchina degli aiuti si muove con grande lentezza e inadeguatezza. Non si ha il coraggio di ammettere che non siamo preparati ad affrontare disagi di tali proporzioni. Cosa non va nell’attuale gestione delle crisi?

Gli aiuti servono a "tappare i buchi"  e ottenere voti, non a dare un corso diverso alle opere e alla vita delle persone, per cui saranno sempre in ritardo e atti solo ad alzare il PIL (vedi gli euri ora richiesti da Renzi all'UE per il riassetto idrogeologico, *il riferimento è al controverso piano Juncker di cui finora non sono stati chiariti né termini né risorse).

(Intervista di Claudia Ciardi)

26 novembre 2014

Marc Augé - Rovine e macerie




Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo,
Bollati Boringhieri, 2012

«Bisogna ritornare per scrivere, quantomeno ritornare a casa»
Marc Augé

«Essendo noi oggi molto più sradicati e momentanei»
Piero Bigongiari


Vi è un’analogia fra ricordo e rovina. È questo l’assunto fondamentale del libro di Augé, una testimonianza sul tempo così come risale dai luoghi alla sua percezione di antropologo ma più semplicemente di viaggiatore, perché le due cose nel suo discorso non sono tenute separate da marcatori accademici. Anche in questo lo studioso francese rompe gli schemi e non sorprenderà pertanto che la scrittura saggistica incroci in lui il genere memoriale, facendosi romanzo autobiografico. Tale aspetto, sommato allo spessore contenutistico della sua ricerca, aiuta a spiegarne la fortuna presso il largo pubblico. 
Il padre del concetto di non luogo, attorno al quale non manca di ragionare anche in queste pagine, ripercorre le tappe della sua iniziazione alla scoperta dell’altro, curiosità per lui innata, come ricorda nel grazioso volumetto dedicato all’infanzia a Parigi e ai primi viaggi della sua vita, lungo le linee di quella metropolitana. Qui le prime immagini che vengono incontro al lettore appartengono alla Costa d’Avorio, ai palazzi in rovina edificati dai coloni per i mediatori locali, costruzioni di appena sessant’anni, all’epoca in cui Augé se li trova davanti, eppure già segnati da una decrepitezza che concentrava su di sé l’intera desolazione dell’ambiente e che anzi sembrava da lì addirittura scaturire.  
«Lo spettacolo di quelle rovine recenti costituiva una specie di enigma di cui avvertii immediatamente l’esistenza senza identificarne i termini né coglierne la natura». È intorno a questo enigma, all’interrogativo che la vista delle rovine suscita nel visitatore, che prende forma la sua teoria sulle assonanze tra storia e memoria. Il dubbio circa la persistenza di una simile sensazione, di qualcosa di irrisolto eppure insinuante nell’attimo in cui si posa lo sguardo su un monumento, su un gruppo di vecchie sepolture di cui nessuno pare occuparsi più, è l’elemento conduttore di tutta la sua indagine. Cos’è quel senso di struggente vicinanza a nessun tempo e a nessun essere umano in particolare, da cui ci siamo afferrati di fronte a una costruzione diroccata? Perché quando il nuovo si porta via il vecchio – e Augé lo dice senza alcuna retorica e tenendosi alla larga dai luoghi comuni – ci scopriamo così attaccati alle fragilità di quegli spazi che le leggi di mercato pretendono di riordinare?
Ciò che costituisce le coordinate del nostro immaginario, e questi meccanismi risultano accentuati nelle città e più ancora nella metropoli, anche se non ne abbiamo una precisa consapevolezza culturale, si crea in stretta simbiosi con gli eventi storici. I sussulti e le rotture della storia, spesso di natura violenta, si riverberano entro l’orizzonte in cui ci muoviamo. L’architettura è il riflesso dei tempi e si offre al nostro sguardo come un corpo, con le sue vulnerabilità, le sue sconfitte, e noi siamo portati a comparare le sue forme, i paradigmi che vi si manifestano, a quelli di un corpo vivente. Una rovina è l’occhio dissepolto del tempo che si ribella alla storia. Quel che ci attrae delle rovine sta nella sovrapposizione di natura e cultura in modo che il passato che lì si ascolta non è più in grado di parlarci distintamente di sé. Sappiamo che esiste, ne abbiamo una vaga idea ed è sufficiente a rassicurarci.
«Il tempo puro è questo tempo senza storia, di cui solo l’individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione». Nello scenario delle rovine la riunione di temporalità diverse non diviene qualcosa di stridente, contribuisce anzi a limare il dramma delle vicende storiche, cui lì ripensiamo senza la pressante rumorosità che ci incalza quando invece siamo costretti a valutarne l’attualità.
Tra le diverse voci alle quali Augé si rifà, vi è quella di Albert Camus a Tipasa, città romana nei pressi di Algeri. Camus sottolinea la lunghezza del processo con cui il passato finalmente abbandona le cose e poi scrive: «Avevo sempre saputo che le rovine di Tipasa erano più giovani dei nostri cantieri e delle nostre macerie». 
Affermazione folgorante. Lo spazio liberato dalla storia appare più conciliante e perfino più giovane. Le macerie invece, dal latino maceria, “muro a secco”, “muraglia”, non conservano nulla di questa lenta maturazione storica, dell’affrancamento della storia da se stessa. Si collocano semmai sulla direttrice opposta, sono il frutto di un deragliamento. La maceria è il segno tangibile della «follia della storia» e in un orizzonte di macerie si potrà solo avvertire il peso della distruzione, che è un atto di violenza, dove la forza e la rapidità dello scontro operano a cancellare il tempo, a polverizzarlo ma non nel senso del suo lungo decadimento. Le radiazioni della storia contaminano le macerie e chi vi si imbatte. Non si avrà dunque una visione pacificata piuttosto la presa di coscienza di quello che potrebbe accadere in ogni momento. A Berlino i segni di questa febbre, almeno per quanto riguarda l’Europa, sono profondamente incisi nello spazio urbano e, sostiene Augé, la enorme opera di ricostruzione che dura tuttora anziché celare rivela. Metropoli dai nervi fragilissimi e scoperti, la foga con cui si mette mano a nuovi cantieri e progetti non è unicamente il riflesso di un’aspirazione alla modernità, che vuol gettarsi tutto alle spalle. Semmai mostra proprio la continua ricerca della città, e la difficoltà che comporta, a risistemare la violenza del passato e a recuperare un rapporto con quel passato che ha lasciato macerie, non rovine, dove difficilmente ci si sarebbe potuti aggirare senza percepire come lo sfaldamento implicasse quello delle persone. E dove tuttora capita di camminare con questo sentimento. Ma bisognerebbe anche parlare di Varsavia, città completamente annientata, di Amburgo, Dresda, delle ferite di Londra e prima ancora delle città bombardate nella guerra civile spagnola. E poi Beirut durante la guerra civile libanese, Sarajevo, Aleppo, per restare tra Europa e Medio Oriente. Luoghi nei quali l’uomo ha rinunciato a farsi interprete del suo tempo, proprio quando invece pensava di esserlo come mai prima.
D'altra parte l’odierno livellamento cui oggi assistiamo nella costruzione di quartieri avveniristici, di centri commerciali all’ultima moda, di zone residenziali identiche nei due emisferi a scapito delle peculiarità degli spazi in cui sorgono, tendenze contro le quali Augé esprime il proprio disappunto in un passaggio del libro sulla ‘sua’ Parigi, è una fase nuova che proietta l'uomo in un territorio ignoto. Su di lui grava la sfida a non esserne fatalmente estromesso.     

(Testo e foto di Claudia Ciardi)



Una casa abbandonata in Via del Molino a vento - Trieste, 2014

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Non luogo - Enciclopedia Treccani

Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald - Helios Magazine (2010)



«Quello che potrebbe sembrare un insolito terreno di esplorazione, incoerente all’apparenza col mondo di superficie, si rivela un luogo di richiami e sedimentazioni, caratterizzato invece da una straordinaria capacità ricettiva. E viceversa, giacché il sottosuolo, divenendo fulcro delle abitudini in base a cui si articola la vita in metropoli, contamina largamente quel che accade qualche metro sopra. La sintonia che qui è possibile cogliere con i livelli più profondi del sé, permette di analizzare la struttura del corpo sociale, fino a tracciarne riti e itinerari riconducibili a una vera e propria era geologica che ha visto la piena affermazione della metropoli e dei suoi ritmi».
 Recensione di Un etnologo nel metrò, Elèuthera, 2010. Su Sololibri.net



Paesino abbandonato di Mirteto sui Monti Pisani, 2009  

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