27 luglio 2012

Nikolaj Leskov e Walter Benjamin


Il viaggiatore incantato
Nikolaj Leskov
traduzione: Tommaso Landolfi
introduzione: Walter Benjamin
Einaudi, 1967 (1978)



Si è detto, è una riflessione di Alberto Arbasino, che il romanzo, e dunque la letteratura occidentale moderna, finisce sul corpo morto dello starec Zosima nei Fratelli Karamazov. Altri hanno parlato di una notte di ottobre ad Arzamas dove il conte Tolstoj descrive la paura di morire come “l’orrore bianco” dentro una stanza quadrata.
Nel 1873, l’anno in cui esce Il viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov, l’arte del narrare sembra godere ancora di ottima salute. Walter Benjamin, la cui voce non casualmente viene ad avviarci alla lettura di questa storia tradotta per Einaudi con piglio vivace e ironico da Tommaso Landolfi, scrive un’apologia dell’epica del racconto ispirandosi proprio al métier di Leskov. Questo russo dalla vita e dalla penna itineranti sa raccontare in modo da non immobilizzare la spontaneità dell’actio nella forma di romanzo né impegolarla nella sua tormentata anamnesi interamente orientata dall’individualismo psicologico. Piuttosto è perfettamente in grado di restituire la semplice leggerezza della fiaba, l’improvvisazione fantastica che innesca i suoi innumerevoli cambi di scena, le sue improbabili allusioni in grado di esercitare un richiamo irresistibile sull’immaginario degli ascoltatori; come non manca di osservare il protagonista, “dopo questo tutto da noi andò in fretta come in una favola.” Ciò suggerisce qualcosa anche riguardo al ritmo della narrazione. Sulla corrente del Ladoga, vicino a S. Pietroburgo, il narratore si manifesta ai passeggeri e inizia così una fluente cronaca di viaggio e di vita, incalzata dalla curiosità dei suoi uditori.
Questo asciutto resoconto articolato tra fantasticherie e stralci di un’ipotetica realtà corre veloce come le acque di un fiume, fatalmente il señal del passaggio degli anni che si gettano all’inseguimento del giovane Ivan Fljagin fino all’inesorabile farsi largo dell’ultima stazione del cammino, o per meglio dire rêverie. Il costante avanzare del nostro perfetto novellatore che si sente dominato da una forza a lui estranea, la quale assume diverse forme, dalle visioni del monaco ucciso quando era adolescente, al potere del magnetizzatore, all’amore di Gruška, scaturisce dalla profezia annunciata all’inizio della storia, secondo cui “dovrà molte volte perire e mai perirà”.
E ogni accadimento si assimila mutevole dei fiumi o nell’impeto forsennato dei cavalli, perché proprio in questi animali è riposta la più intima e particolare comunione sensibile e visionaria del narratore incantato. Le folle selvatiche reali o sognate che scuotono la trama, simili alle genti della Scizia descritte da Erodoto o, a detta dello stesso Leskov, a quelle che popolano le favole di Eruslan e Bova Korolevič, con un richiamo scoperto ai suoi probabili modelli fantastici, le personae mythicae che non appartengono a nessun tempo e luogo ma sono ovunque e si danno dappertutto come forze motrici del racconto, ci riportano agli antichi cicli narrativi, alla peregrinatio della parola che nel passaggio dall’uno all’altro episodio è essa stessa materia dinamica, corrente che attraversa veloce le diverse sponde dell’immaginazione, e nel suo costante cambiarsi tesse le innumerevoli possibilità di un viaggio letterario altrettanto infinito.
Le affascinanti serie combinatorie che giocano la tragicommedia di Ivan Sever’janyč Fljagin sul filo del grottesco, talora affidandosi ai toni dell’elegia, come nel caso delle considerazioni sulla “malinconia senza fondo” della steppa o l’invocazione alla bella e infelice Gruška sulla riva del fiume immerso nel tramonto, rivelano la loro essenza nei contrasti visionari e paradossali che ne alimentano il vorticoso alternarsi sulla scena.
Al suono di un «pti-com-pe» un guaritore esorcizza la notte di Kursk, e Ivan scivola attratto dal magnetismo e non può arrestarsi, va via trascinato dalle formule incantatorie che il suo tempus mirabile gli recita attorno, ritualmente abbandonandosi al flusso. Così il viaggio approda all’agnizione finale, che coincide con il compiersi della profezia, nella quale non è solo il risveglio cosciente di Fljagin ma anche l’emergere di un’intelligenza ossessionata e acuta che fa presagire la perdita del mondo.
La fine dello smarrimento comporta per il viaggiatore incantato la chiarezza. Vede il suo popolo vacillare e piange, Ivan-Fljagin-Ismail, l’uomo dall’identità viandante, che sulla pace appena conquistata sente insistere nuove visioni e farsi largo la minaccia della guerra. La leggerezza e la fluida grazia che sostengono la dizione epica di Leskov improvvisamente si trovano smorzate dal confronto con una labilità ineludibile. Proprio qui, nella chiusa, si affacciano le lunghe ombre del tramonto in cui Benjamin ha visto aggirarsi il narratore. Nello stesso istante in cui l’autore solleva il velo scoprendo che pure la realtà ha un volto ostile e incerto, il racconto entra in affanno.
Dieci anni dopo, dalla bianca stanza delle Memorie di un pazzo Tolstoj sembra voler recuperare a una concretezza visionaria le angosce del Signor Fljagin. Forse Leskov non sentiva già scricchiolare qualcosa nella Grande Russia?
Il vagare senza posa del suo protagonista trova la principale sponda in un amaro sconcerto profetico, in parte riflettendo i rovesci di sorte dei singoli o di intere nazioni che al lettore più tardo non possono non evocare la prima guerra mondiale, il cui spettro pare nutrire come falda sotterranea il nero disincanto col quale si chiude il secolo del progresso.
(di Claudia Ciardi/ giugno 2010)


Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows
In: Walter Benjamin: Illuminationen. Ausgewählte Schriften 1. Frankfurt/M. 1977, S. 385-410

I. Der Erzähler - so vertraut uns der Name klingt - ist uns in seiner lebendigen Wirksamkeit keineswegs durchaus gegenwärtig. Er ist uns etwas bereits Entferntes und weiter noch sich Entfernendes. Einen Lesskow als Erzähler darstellen heißt nicht, ihn uns näher bringen, heißt vielmehr den Abstand zu ihm vergrößern. Aus einer gewissen Entfernung betrachtet gewinnen die großen einfachen Züge, die den Erzähler ausmachen, in ihm die Oberhand. Besser gesagt, sie treten an ihm in Erscheinung, wie in einem Felsen für den Beschauer, der den rechten Abstand hat und den richtigen Blickwinkel, ein Menschenhaupt oder ein Tierleib erscheinen mag. Diesen Abstand und diesen Blickwinkel schreibt uns eine Erfahrung vor, zu der wir fast täglich Gelegenheit haben. Sie sagt uns, daß es mit der Kunst des Erzählens zu Ende geht. Immer seltener wird die Begegnung mit Leuten, welche rechtschaffen etwas erzählen können. Immer häufiger verbreitet sich Verlegenheit in der Runde, wenn der Wunsch nach einer Geschichte laut wird. Es ist, als wenn ein Vermögen, das uns unveräußerlich schien, das Gesichertste unter dem Sicheren, von uns genommen würde. Nämlich das Vermögen, Erfahrungen auszutauschen. Eine Ursache dieser Erscheinung liegt auf der Hand: die Erfahrung ist im Kurse gefallen. Und es sieht aus, als fiele sie weiter ins Bodenlose. Jeder Blick in die Zeitung erweist, daß sie einen neuen Tiefstand erreicht hat, daß nicht nur das Bild der äußern, sondern auch das Bild der sittlichen Welt über Nacht Veränderungen erlitten hat, die man niemals für möglich hielt. Mit dem Weltkrieg begann ein Vorgang offenkundig zu werden, der seither nicht zum Stillstand gekommen ist. Hatte man nicht bei Kriegsende bemerkt, daß die Leute verstummt aus dem Felde kamen? Nicht reicher - ärmer an mitteilbarer Erfahrung. Was sich dann zehn Jahre später in der Flut der Kriegsbücher ergossen hatte, war alles andere als Erfahrung gewesen, die von Mund zu Mund geht. Und das war nicht merkwürdig. Denn nie sind Erfahrungen gründlicher Lügen gestraft worden als die strategischen durch den Stellungskrieg, die wirtschaftlichen durch die Inflation, die körperlichen durch die Materialschlacht, die sittlichen durch die Machthaber. Eine Generation, die noch mit der Pferdebahn zur Schule gefahren war, stand unter freiem Himmel in einer Landschaft, in der nichts unverändet geblieben war als die Wolken und unter ihnen, in einem Kraftfeld zerstörender Ströme und Explosionen, der winzige, gebrechliche Menschenkörper.

IV. [...] Die Kunst des Erzählens neigt ihrem Ende zu, weil die epische Seite der Wahrheit, die Weisheit, ausstirbt. Das aber ist ein Vorgang, der von weither kommt. Und nichts wäre törichter, als in ihm lediglich eine "Verfallserscheinung", geschweige denn eine "moderne", erblicken zu wollen. Vielmehr ist es nur eine Begleiterscheinung säkularer geschichtlicher Produktivkräfte, die die Erzählung ganz allmählich aus dem Bereich der lebendigen Rede entrückt hat und zugleich eine neue Schönheit in dem Entschwindenden fühlbar macht.

V. Das früheste Anzeichen eines Prozesses, an dessen Abschluß der Niedergang der Erzählung steht, ist das Aufkommen des Romans zu Beginn der Neuzeit. Was den Roman von der Erzählung (und vom Epischen im engeren Sinne) trennt, ist sein wesentliches Angewiesensein auf das Buch. Die Ausbreitung des Romans wird erst mit Erfindung der Buchdruckerkunst möglich. Das mündlich Tradierbare, das Gut der Epik, ist von anderer Beschaffenheit als das, was den Bestand des Romans ausmacht. Es hebt den Roman gegen alle übrigen Formen der Prosadichtung - Märchen, Sage, ja selbst Novelle - ab, daß er aus mündlicher Tradition weder kommt noch in sie eingeht. Vor allem aber gegen das Erzählen. Der Erzähler nimmt, was er erzählt, aus der Erfahrung; aus der eigenen oder berichteten. Und er macht es wiederum zur Erfahrung derer, die seiner Geschichte zuhören. Der Romanicer hat sich abgeschieden. Die Geburtskammer des Romans ist das Individuum in seiner Einsamkeit, das sich über seine wichtigsten Anliegen nicht mehr exemplarisch auszusprechen vermag, selbst unberaten ist und keinen Rat geben kann. Einen Roman schreiben heißt, in der Darstellung des menschlichen Lebens das Inkommensurable auf die Spitze treiben. Mitten in der Fülle des Lebens und durch die Darstellung dieser Fülle bekundet der Roman die tiefe Ratlosigkeit des Lebenden. Das erste große Buch der Gattung, der Don Quichote, lehrt sogleich, wie die Seelengröße, die Kühnheit, die Hilfsbereitschaft eines der Edelsten - eben des Don Quichote - von Rat gänzlich verlassen sind und nicht den kleinsten Funken Weisheit enthalten. [...]



                                        Portrait of Nikolaj Leskov

Links:

Some Russian works by Nikolaj Leskov

Walter Benjamin über Nikolai Semjonowitsch Leskow
Der Erzähler/ Il narratore

Walter Benjamin - Liberami dal tempo/ Enthebe mich der Zeit - Via del Vento edizioni

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