È il titolo dell’antologia firmata da Annelisa Alleva, volume di circa seicento pagine edito da Scheiwiller dove trovano spazio sedici voci della poesia russa contemporanea, tradotte dalla stessa curatrice che attraverso brevi schede biografiche e bibliografiche aiuta il lettore a orientarsi o se vogliamo ambientarsi in un panorama piuttosto frastagliato per cadenze e argomenti. Gli autori censiti si collocano su un arco di tempo che va dal 1935 al 1974, estremi di nascita entro cui sbocciano alcuni tra i più vivaci universi generazionali della Russia postmoderna. Citate frequentemente tra le pubblicazioni italiane che fanno in qualche modo da spalla a questo ampio excursus, le antologie dell’editore Crocetti e le numerose traduzioni di Paolo Galvagni, entrambi oggetto di diversi miei articoli.
La Alleva, studiosa di lingua e letteratura russa, già curatrice per Garzanti delle opere di Puškin, insegna attualmente traduzione letteraria dal russo all’università La Sapienza di Roma. Nel periodo più recente della sua attività si è indirizzata alla divulgazione della poesia russa contemporanea, contribuendo a presentarne non pochi nomi presso i lettori italiani. Tra essi spicca quello di Boris Ryžij, indole affascinante e tragica, virtuoso del verso dove il risveglio della parola è costantemente in bilico tra ascesa e caduta, armonia e decomposizione, classicismo – dai grandi maestri russi a Rilke – e crudezza verbale. Si sarebbe tentati di dire poeta maledetto proprio per la singolare commistione fra il suo immaginario lirico e il precoce epilogo della sua esistenza. Suicida nel 2001, all’età di ventisette anni, è infatti l’unico poeta non vivente tra quelli antologizzati. E aggiungerei, forse anche il più profondo, sebbene non intenda con ciò assecondare certa aneddotica che esagera la sovrapposizione tra vicissitudini di vita e genialità. Considerando che la lettura in traduzione può comportare una perdita della forza dell’originale, e per la poesia il discorso si fa ancora più delicato in quanto la parola sviluppa nessi con diversi piani della sensibilità di cui la componente sonora è il principale veicolo, insomma anche in tali limitazioni il tratto di Ryžij non esaurisce la sua bellezza.
Merito senz’altro del grande lavoro della curatrice ma non meno del peso dell’autore. Casi del genere implicano che nell’esercizio della traduzione si celebri a pieno l’incontro con la materia prescelta, tanto che nel passaggio e nel rinnovamento in un’altra lingua l’identità del poeta cresce anziché essere smorzata.
Il presente volume è corredato da una serie di saggi e interviste che contribuiscono ad approfondire le singole figure proposte in antologia ma ancor più danno uno spaccato del dibattito contemporaneo attorno a temi cruciali della creatività letteraria. Da una prospettiva abbastanza inconsueta per un occidentale, la Russia, che a sua volta in questa analisi guarda inevitabilmente anche a occidente. Nel corso della mia ricognizione sul testo mi sono soffermata su tre autori le cui vite abbracciano in maniera simbolica l’immenso spazio della madrepatria. Il primo è Sergej Stratanovskij, bibliotecario a San Pietroburgo, figlio di un filologo traduttore degli storici antichi, che gli ha trasmesso la passione per la lingua greca e in generale per la cultura classica. La seconda è Olga Sedakova di Mosca, eclettica studiosa di lingue e culture straniere, attualmente insegnante presso l’università statale della sua città. Infine, Boris Ryžij, di cui in parte abbiamo già detto, nativo di Ekaterinburg, sugli Urali, luogo periferico e conosciuto solo per l’uccisione dei Romanov durante la rivoluzione bolscevica. Ma attraverso Ryžij torniamo pure a San Pietroburgo, da lui frequentata, e dove è entrato in contatto con la sua ‘scuola’ poetica; numerosi sono infatti i ricordi che lo legano alla birreria di Via Mochovaja, accanto alla redazione della rivista «Zvezda», in compagnia dei poeti Oleg Dozmorov e Elena Tinovskaja, entrambi affezionatissimi a Boris.
Dunque, tre mondi lirici che rappresentano altrettanti punti cardinali nella galassia sovietica, una vastità geografica che riflette la complessità spirituale di un popolo e delle sue molteplici aperture culturali. Così Rilke, quando giunse la prima volta in Russia in compagnia di Lou Andreas Salomé e del marito di lei, Carl Andreas, fu commosso dall’attenzione che questo paese riservava ai suoi poeti e dal fatto che la poesia fosse considerata parte integrante della società, capillarmente diffusa ovunque, anche e perfino con maggiore slancio tra i contadini analfabeti che amavano recitare a memoria Puskin. La scoperta di una simile vicinanza del popolo all’arte poetica, in occidente confinata con freddo rigore alle sfere elitarie della società, compagine fin troppo omogenea per quanto riguarda il sentimento autoreferenziale di sé, scosse nel profondo il giovane Rilke, regalandogli una delle lezioni più importanti per la sua crescita intellettuale. Nel vecchio continente l’artista risulta spesso appesantito dalla propria estrazione sociale. Chi si dedica all’arte, non importa sottolinearlo, appartiene alle classi fornite di più mezzi e il motivo è ben immaginabile: arte e studio richiedono tempo, libertà da obblighi stringenti, quindi risorse economiche, e ciò è ancor più vero in paesi dove i meriti culturali di una persona prima di essere riconosciuti e di trovare una rispondenza concreta nella collettività subiscono un annoso processo alle intenzioni. Il che può essere lecito se serve a verificare i reali attributi di qualcuno, ma corre il pericolo di divenire un mezzo per non rimescolare determinati assetti, ritenuti un diritto acquisito anche quando ormai esprimono poco o nulla. Pertanto se è vero che esiste un’autoreferenzialità sociale dell’arte e in generale dell’attività intellettuale, va da sé che questo orienti anche un sentimento elitario di chi le pratica. La differenza tra noi e Orazio quando diceva «odi profanum vulgus et arceo» è che lui aveva ben in mente cosa fosse il popolo, e proprio in virtù di tale consapevolezza poteva prendersi la libertà di stigmatizzarne i tratti, inchiodandoli all’occorrenza a una formula di altezzosità letteraria, senza che la fede sincera nei suoi simili fosse scalfita. Noi invece non sappiamo più o quasi cosa sia il popolo, soprattutto dove sia. Quando scriviamo o pratichiamo i nostri studi, molto poco vibra in noi di quella che potremmo chiamare partecipazione spirituale a un insieme, che in sostanza è fatto di carne, pelle, occhi di chi abbiamo intorno e delle generazioni che ci hanno preceduto, di quel presente in cui non esistevamo ma che già entrava nelle nostre vite attraverso i nostri familiari. Non era forse il culto degli antenati al centro della religiosità latina? Non lo era in Cina, altra civiltà antichissima, dove è sopravvissuto fino alle soglie della rivoluzione maoista? Senza sapere cosa sei, la tua scrittura varrà poco e nulla. Ecco, quando leggo la poesia russa, questo monito sorretto dal senso di qualcosa che unisce alla corrente magnifica e brutale della storia mi trascina su sponde culturali molto lontane dal consueto.
Basti osservare cosa sia San Pietroburgo, come un’intera città in poco più di tre secoli abbia fatto delle proprie strade una narrazione letteraria cui gli eventi si sono docilmente assoggettati. Nella città «più astratta e più premeditata del pianeta» secondo la celebre epigrafe scolpita da Dostoevskij per le sue Memorie dal sottosuolo, non sarebbe potuto accadere il contrario. Guardiamo cosa sia palazzo Jusupov, in che modo, quasi con ovvia predestinazione si siano alternati nelle sue stanze trascorsi sanguinari – nel dicembre del ’16 vi si consumò l’assassinio del monaco-guaritore Grigorij Rasputin – a episodi di grazia abbagliante. Il suo teatro ha ospitato innumerevoli concerti, fra cui le esibizioni di Liszt e Chopin, e le letture dei versi di Blok, Esenin e Majakovskij. Vedere quali spazi offrano i russi ai loro poeti dà ancora una volta la misura della considerazione di cui gode quest’arte.
Gli autori che qui introduco brevemente, sebbene di età non omogenee, hanno accenti e modelli comuni. Per quanto riguarda questi ultimi, lo si diceva precedentemente, il classicismo russo da Puskin alla Achmatova, andando all’indietro fino all’antichità greca e passando per la letteratura anglo-americana. Nella Sedakova l’intreccio assume proporzioni assai vaste, tanto da congiungere idealmente la tradizione italiana delle Laudi (Jacopone da Todi, San Francesco) e Dante ai Cantos poundiani. Voci diluite e condensate in molte delle sue liriche, dove tuttavia restano pure estremamente riconoscibili. Della dissolvenza la Sedakova fa un tratto stilistico proprio, che mostra le sue numerose e delicate sfaccettature nei versi del Viaggio cinese, omaggio a un oriente dell’anima più che del paesaggio.
Colpisce in particolare il ricorso insistito ai temi della memoria e dell’infanzia che in ognuno assume com’è ovvio caratteristiche differenti, anche se è prevalente l’idea della perdita del sé. Mentre nel caso di Ryžij e Stratanovskij affiora una vera e propria lacerazione, che il secondo declina anche nei termini di un confronto serrato quanto impietoso con la storia e i suoi sempre attuali drammi, per la Sedakova è questione di archetipi, sagome e ombre evocate in linea con le rarefazioni della sua scrittura.
Ryžij reca in sé la cifra di un fatalismo iscritto con sconvolgente pesantezza nel suo passato. Il poeta guarda se stesso sempre all’indietro, come riavvolgendo una pellicola, e non è infatti un caso che prediliga le metafore cinematografiche e in generale l’ambiente cinema. Se non rinnega se stesso è solo in rispetto di quella spropositata maschera del tempo, che ora è una zingara profetizzante in un padiglione, simile in tutto alle prime pagine dei Canti Orfici campaniani, ora un ubriaco steso sulla panchina di un giardino che i poliziotti scoprono essere per l’appunto «il solito ubriacone Borka Ryžij, il primo poeta della città».
Sono poesie queste della Russia contemporanea in cui altezze e bassezze del vivere stringono un patto fragorosamente e clamorosamente attagliato alla quotidianità, impastata quanto basta col fango dell’essere perché ascesa e dannazione scavino un solco riconoscente nella nostra esperienza di lettori.
(Di Claudia Ciardi)
Poeti russi oggi,
a cura di Annelisa Alleva,
Libri Scheiwiller, 2008
Di Sergej Stratanovskij
[Spiriti invisibili]
Spiriti invisibili,
spiriti dei monti non battezzati, ostili,
di notte, scendendo a valle,
assaltano i nostri guerrieri
e la nostra milizia.
Noi è tanto che abbiamo conquistato
questa terra ribelle,
ma gli spiriti delle sue gole
non ce l’hanno ancora perdonata.
(Da
Accanto alla Cecenia)
[Nel metrò]
Nel metrò Tjutčevskaja passa la notte un uomo
Oh, non svegliare –
sennò insorgerà
in lui un caos furioso…
(Da
Buio diurno)
[Non ho trovato quella birreria]
Non ho trovato quella birreria,
dove con gli amici, solo ieri…
al suo posto c’è un enorme fosso,
anche se lo steccato tutt’intorno è lo stesso…
E il passante non sa
che cosa è successo alla birreria:
come se fosse sprofondata tutt’a un tratto.
Non ho trovato neppure l’ufficio,
dove solo ieri, un certificato…
Possibile che sia sprofondato in una notte?
Mi sono seduto su una panchina
sudando freddo.
La matrice, si vede, onnipotente
ha fatto qui questo bel lavoro,
contenta di terrorizzare la mente
(Da
Sul fiume torbido)
Di Olga Sedakova
[Là, sulla montagna]
Là, sulla montagna,
dentro le cui ginocchia è l’ultima capanna,
e più in alto nessuno capitava;
la cui fronte non si scorgeva per via delle nuvole
e non si potrà dire se era tetra o allegra –
qualcuno ci passa e non ci passa,
c’è e non c’è.
Ha la grandezza circa dell’occhio di una rondine,
di una briciola di pane secco,
di una scala sulle ali di una farfalla,
di una scala gettata giù dal cielo,
di una scala, su per la quale
nessuno ha voglia di arrampicarsi;
più minuscola di quel che vedono le api,
e di quanto sia la parola.
(Da
Viaggio cinese)
[Grande il pittore che non conosce dovere]
Grande il pittore che non conosce dovere
oltre a quello del pennello che gioca:
e il suo pennello penetra nel cuore dei monti,
penetra nella felicità delle foglie,
con un colpo solo, con la sola mitezza,
il rapimento, il solo turbamento
penetra nell’immortalità stessa –
e l’immortalità gioca con lui.
Ma colui che viene abbandonato dal suo genio, colui dal quale
il raggio viene deviato,
colui che per la decima volta in un luogo torbido
cerca una sorgente pulita,
colui che si è lasciato cadere di mano i miracoli, ma non dirà:
i miracoli non esitono! –
davanti a lui con deferenza
s’inchinano i cieli.
(Da
Viaggio cinese)
[Lodiamo la nostra terra]
Lodiamo la nostra terra,
lodiamo la luna sull’acqua,
quel che non è con nessuno e con tutti,
da nessuna parte e dappertutto –
della grandezza di un occhio di rondine,
di una mollica di pane secco,
di una scala sulle ali di una farfalla,
di una scala, gettata dal cielo.
Non solo disgrazia e pietà –
sono briglia al mio cuore,
ma il fatto che sorrideva
un’acqua meravigliosa.
Lodiamo il bagno nel vetro vivo
dei rami inestimabili, scuri
e di tutti gli spiriti insonni
su ogni grano dentro la terra.
E quel che è ricompensa,
quel che è ostacolo alla cattiveria
quel che è il giardiniere per il giardino –
alla terra è lode.
(Da
Versi)
Di Boris Ryžij
[Indovina, zingara]
Indovina, zingara, per un soldo di rame,
spiegami di che morrò.
Risponde la zingara, dice, tu morrai,
quelli così non restano al mondo.
Tuo figlio diventerà un estraneo, estranea la tua donna,
ti volteranno le spalle gli amici-nemici.
Che cosa ti ucciderà, giovane? La colpa.
Ma tu la colpa custodisci.
Di fronte a chi la colpa? Di fronte a chi è vivo.
E ride, negli occhi mi fissa.
E dal bazar echeggia un motivo
della mala, il cielo si schiarisce.
(Da
Al vento freddo)
[Dove si spezza la memoria]
Dove si spezza la memoria, un vecchio film parte,
una vecchia musica suona una certa tiritera.
La pioggia è passata nel parco, e non si può dire
[quanto forte
profumi il lillà in questo giorno di primavera.
Salire sul tram 10, scendere, passare sotto l’arco
staliniano: tutto com’era, era un secolo addietro.
Qui mi prendevano per mano, qui mi tiravano
[su in braccio,
mi facevano vedere un film nel cinema teatro all’aperto.
L’arte mostrava gli stessi sentimenti,
lo stesso parco dei divertimenti, un ragazzino in braccio.
E l’interminabile passato, illuminato fiocamente,
impedisce molto al futuro di prendere slancio.
Per nostalgia o per scempiaggine e sbornia ci si può
sollevare più in alto dei pini, fino al cielo
sulla ruota panoramica, ma capire non si può:
se la guerra ancora non c’era, o c’era.
È tutto in bianco e nero, con le mamme vanno i figli,
un cattivo altoparlante canta qualcosa con aria trionfale.
Quanto ho vissuto a lungo, quanto ho patito gli
spasimi del cuore, le lacrime, e anche il contrario.
(Da
Al vento freddo)
[Ricorderemo quel che ricordiamo]
Ricorderemo quel che ricordiamo e il dimenticato,
tutto quel che il bambino ci ha dato in regalo.
La cittadina dove abbiamo amato,
la cittadina persa fra le nuvole.
E se potessimo riavvolgere la bobina
indietro, tu vedresti
coprirsi di polvere sulla mia tomba
i fiori gialli morti.
Lì sono morto, ma chi è vivo sente il chiasso
degli uccelli, e l’alba prende fuoco
sui cespugli dei ciliegi selvatici rossi.
Vano tutto quel che è stato dopo.
(Da
Al vento freddo)
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