31 luglio 2018

Czeslaw Milosz - La testimonianza della poesia



Di origini lituane, Czeslaw Milosz (1911-2004) ha scritto e si è sempre espresso in polacco, la lingua del paese che durante la sua infanzia comandava sul Baltico, in senso politico e culturale. Il saggio La testimonianza della poesia raccoglie le lezioni tenute all’università di Harvard, in questo caso in lingua inglese, all’indomani del Nobel per la letteratura ricevuto nel 1980. Si tratta di una serie di riflessioni che incrociano le fasi salienti della storia europea tra le due guerre mondiali cui si lega il destino stesso della poesia, pendolo meraviglioso oscillante su gorghi e naufragi.
È anche l’occasione per l’autore di tornare alle radici, della propria lingua, dei suoi cantori, del dissidio oriente-occidente, fatto di distanze ma pure di travasi, dal classicismo al rinascimento, alla cultura francese ottocentesca adottata dall’aristocrazia russa. In questa lunga esplorazione per epoche, luoghi e nomi della frontiera mitteleuropea affacciata a oriente, Milosz rileva la frattura che attraversa il poeta del Novecento in rapporto alla comunità umana. A differenza del romanticismo, quando il legame era ancora forte, l’avvento dell’idea di progresso nella seconda metà del secolo, sostenuto dall’ottimismo fideistico nelle scienze e, di contro, responsabile di un arretramento dell’immaginazione, soccombente alla misura razionale che riempie ogni spazio del vivere, generatrice di una coppia di opposti spartita fra esattezza e sogno, causa il distacco definitivo della poesia dalla cosiddetta grande anima popolare. Il poeta non sente più come una necessità la rappresentazione di un’esperienza condivisa, il suo intento non è più portare alla luce qualcosa in grado di entrare in sintonia coi suoi simili, ma dilegua, si chiude in un individualismo autoreferenziale e malato. Crede infatti – agisca per protesta o per convinzione elitaria – che l’arte debba parlare da sé, svincolata da un mondo che si è fatto fosco, violento e indecifrabile. Un secessus mundi in piena regola nella vana speranza che  allontanarsi equivalga a salvarsi.
Milosz ci spiega che è questa una fuga effimera, riflesso peraltro di un rapporto con la cultura che è divenuto troppo funzionale, freddamente e meccanicamente, ai dettami della società. Fin dai programmi scolastici si assiste a un incasellamento delle attitudini del bambino, cui si sommano le aspettative degli adulti, che spesso soffocano le sue reali potenzialità con effetti deleteri per tutti, se di nuovo vogliamo pensare in chiave collettiva e non solipsistica. Un avvocato che voleva esser falegname, e magari mettere su una ditta, insomma fare l’artigiano, può darsi che sia diventato ugualmente un bravo professionista come può essere di no. In quel caso affronterà tante frustrazioni, che peraltro non gioveranno a tutti coloro che avranno a che fare con lui. E questo esempio non va interpretato nel senso della tipica dicotomia attività d’intelletto o manuali, perché anzi nella società sempre più complessa in cui ci troviamo son cose ormai destinate a intersecarsi in modo crescente. Va assunto nel suo portato psicologico. Sterminare una sensibilità e costringerla in un’altra direzione non è un atto privo di conseguenze.
È così che Milosz ci ricorda il potere dell’immaginazione, non misurabile secondo regole scientifiche, ma forza creatrice immanente al tutto, sostanza millenaria dell’avventura umana che non può essere imbrigliata, ignorata né ridotta a un esercizio solitario di pochi. Perché questa corrente immaginifica e per certi versi visionaria scorra è infatti necessario tenere l’orecchio attaccato alla terra e a quelli che ci camminano. Non è un caso che all’inizio della dissertazione parli di una credenza popolare. Da giovane uccise una serpe d’acqua, animale depositario di una sacralità unanimemente riconosciuta dalle sue parti, e ammette di essersi trascinato per molto tempo il senso di colpa originato dall’aver tradito un culto pagano, cui riconosce una capacità di condizionarlo in profondo, perfino più dell’educazione cattolica, che pure è stata preminente nella sua vita. Ciò serve a dimostrare la stratificazione che compone i nostri immaginari e dunque quella potenza mai completamente enunciabile che nutre il dettato poetico.
La storia europea del primo Novecento, che particolarmente per la Polonia e i paesi che da lei dipendono irrompe sotto l’aspetto di un regno di rovine e annientamento, diviene un banco di prova per i letterati, spinti dal bisogno di restituire un significato a una realtà in fuga, attorta e quasi astratta in conseguenza del suo sconfinato sovvertimento. Si tratta di elaborare l’esperienza, una dura impronunciabile esperienza, e un’intera generazione di poeti e scrittori polacchi fa proprio questo, non senza mettere in discussione la cultura occidentale e le sue strutture, ritenute responsabili di aver generato il catastrofico inganno che ha preso le sembianze della guerra.
Nella letteratura la poesia soprattutto, per una capacità quasi divinatoria che ne è elemento sostanziale, ha il compito di farsi ponte e allo stesso tempo gettare uno sguardo al di là, non chiudersi in se stessa ma indicare altre sponde, dare un segnale di vita, anche nella distruzione. «Lo stato della poesia in una determinata epoca può dunque testimoniare il dinamismo o il prosciugamento delle sorgenti vitali di una civiltà. […] L’atto poetico cambia a seconda di quanta realtà la coscienza del poeta abbraccia come sfondo. Nel nostro secolo lo sfondo è dato, secondo me, dalla fragilità di tutto ciò che chiamiamo civiltà o cultura. Quello che ci circonda, qui, ora, non è più garantito. Potrebbe scomparire: e l’uomo costruirebbe la poesia con i resti rinvenuti tra le rovine».
Messaggio di perseveranza e fedeltà al grande sogno umano, a patto che non venga meno la sensazione di condividere le sorti di un organismo unico e di abbandonarsi al suo respiro colmo di tutte le epoche del mondo.   

(Di Claudia Ciardi)


Edizione:

Czeslaw Milosz, La testimonianza della poesia. Sei lezioni sulle vulnerabilità del Novecento, a cura di Andrea Ceccherelli, Adelphi, 2013


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Francofonia - Sokurov

Poeti russi oggi (a cura di Annelisa Alleva)


24 luglio 2018

Paolo Ciampi - Il sogno delle mappe




Con l’avvento del turismo di massa e la condizione del viaggiare asservita a un consumismo mordi e fuggi, il che significa tempi stretti, soste necessariamente brevi che nella maggior parte dei casi precludono il vero incontro con un territorio, spese ridotte perché la dura lex dell’economia, che per qualche insano motivo si è deciso di far girare al contrario, prevede ormai margini labilissimi entro cui sognare, progettare e, appunto, conoscere il mondo, insomma, stando alla misura odierna dell’uscita dal proprio spazio per assimilarne un altro, diviene sempre più improbabile ottenere un’esperienza durevole, attinta in profondità. Il viaggio, come tutto il resto, si adatta inesorabilmente alla velocità, a un avanzamento piuttosto superficiale tra una meta e l’altra, e si comunica in fretta, nell’intervallo di qualche selfie e di una condivisione in rete, a volte istantanea.
Sembra lontanissima l’epoca in cui i rampolli delle grandi famiglie europee, ma anche russe, organizzavano il Grand Tour, che aveva in Italia la sua tappa d’elezione, una discesa lenta lungo lo stivale, fino a Roma e poi Napoli, e infine la Sicilia, che secondo Goethe è «la chiave di tutto». Imparagonabile con le odierne peregrinazioni di studio e, in qualche caso più privilegiato, successive allo studio: anche qui solo vendita all’ingrosso, fretta, offerta massificata di cultura ed esperienze che vi ruotano attorno e che raramente brillano di luce propria. Pensare che durante il Grand Tour si trovava perfino il tempo di fermarsi nelle più celebri biblioteche italiane – la Marciana, la Laurenziana, la Vaticana – solo per poter religiosamente toccare con mano le pagine di qualche manoscritto. E quando per qualche motivo si negava l’accesso all’oggetto dei desideri, il richiedente era capace di appostamenti lunghissimi pur di raggiungere l’obiettivo.
In questo grazioso libro sulle mappe, Paolo Ciampi ci racconta un sogno millenario, fatto di uomini ostinati, artisti prima di tutto, capaci di osservare il mondo da prospettive differenti. Perché solo mutando il punto di vista si è in grado di spingersi altrove. E le mappe questo sono. Un racconto fatto d’immaginazione, anzi di tante immaginazioni che nei secoli si sono incrociate e anche contrastate. Così l’autore, dedicandosi al ritratto dei grandi cartografi del passato e commentandolo con alcune delle voci più note della narrativa di viaggio contemporanea, da Bruce Chatwin a Simon Garfield e Paolo Rumiz, ci riporta all’emozione della scoperta, dell’andare come avventura – etimologicamente il volgersi incontro a quel che accadrà – dell’opera devota, quasi monastica – diversi disegnatori di tali oggetti d’arte furono proprio monaci – di coloro che si esercitavano a ridurre il mondo o una porzione di mondo entro un foglio.
Immaginiamo il gesto di un comandante di vascello che diceva al suo secondo di portargli una carta. E poi le ore passate in cabina, magari fino a tarda notte a studiare distanze e tempi del viaggio, interrogandosi sulle scorte e l’umore dell’equipaggio. Che epica meravigliosa, dove il destino dei disegnatori si legava indissolubilmente a quello degli esploratori. Ci racconta lo scrittore in queste sue dense paginette, che i cartografi di Amsterdam solevano aggirarsi sui moli della città e interrogare gli equipaggi di ritorno da lunghi mesi di navigazione, per carpire segreti e dettagli utili alla compilazione dei loro ambitissimi lavori. Storie degne della migliore antropologia letteraria, cui verrebbe voglia di abbandonarsi per un po’: un modo per cominciare un viaggio diverso e per riprendere a coltivare quella lentezza del pensare e dell’incrociare l’altrui cammino che tanto manca al nostro tempo.
Nel resoconto di Paolo Ciampi scorrono sotto i nostri occhi nomi e luoghi antichi a fianco dei moderni. Le origini e le loro, spesso insolite, a volte opposte, prosecuzioni. Spostarsi infatti è anche questione di nomi, dell’attrazione che esercitano su di noi, della loro capacità di interrogarci, della storia con cui lambiscono il passaggio del visitatore, sia il più sprovveduto o documentato. Quella poesia prima o poi ti entra dentro, anche se a te non sembra. Ed ecco che, citando Judith Schalansky «la cartografia dovrebbe essere annoverata finalmente tra i generi poetici e l’atlante tra la bella letteratura». O ancora, affidandoci a Giovanni Cenacchi: «Una mappa, un panorama di montagna, un libro di itinerari e uno di poesie si assomigliano un poco».
Del resto, scoprire su un atlante storico come i romani chiamavano le provincie dell’impero è un po’ come viaggiare nel tempo. Nome quali Norico, Pannonia, Mesia bastano da soli a schiudere quinte immaginifiche di regni e battaglie. È dunque uno scritto, quello di Ciampi, che dedica molto spazio alle etimologie, alle parole chiave che servono a raccontare il mondo. Tutto nasce leggendo i nomi su una carta, fantasticando su quei suoni, lasciando che la mente vaghi sulle vie dei canti, assai prima che il piede, tra incertezza, gioia e curiosità imbocchi un sentiero. Non senza dimenticare il prodigio e la bellezza che stanno nel perdersi. Dante iniziò proprio così, dallo smarrimento in una selva oscura, e ne è scaturito un poema immenso. Lode dell’essere disorientati e dell’abbandonarsi alle sue conseguenze. Le cose migliori, a volte, vengono fuori mentre si sta cercando altro. Colombo era sicuro di andare in India, mentre trovò l’America. Secoli dopo Walter Benjamin, con la stessa convinzione un po’ disincantata, tipica del navigatore novecentesco, vagava nella metropoli, scrigno dei ricordi d’infanzia e luogo dell’inatteso.
Come un affidabile portolano il volumetto di Paolo Ciampi ci guida lungo rotte dimenticate, risvegliando in noi il senso di un’esperienza colta nel suo divenire storico e poetico.

(Di Claudia Ciardi)  


Paolo Ciampi, Il sogno delle mappe. Piccole annotazioni sui viaggi di carta.
Ediciclo, 2018




Mappa mundi di Hereford - 1300 circa


14 luglio 2018

Klimt e le estati sull'Attersee


Se un qualsiasi percorso biografico e tematico su Gustav Klimt prende inevitabilmente le mosse da Vienna, centro radiale della sua attività e luogo deputato alla conservazione e divulgazione della maggior parte della sua opera, è pur vero che non bisogna trascurare un altro importantissimo spazio, che ha influito su quasi un quarto dell’intera produzione del genio secessionista. Il Salzkammergut in Alta Austria e in particolare le sponde dell’Attersee, incorniciato dai piccoli borghi montani e dalle Alpi. Dal 1900 in poi, grazie a Emilie Flöge, sua musa e amante che a questa regione austriaca lo iniziò, Klimt vi trascorse ogni estate, traendone ispirazione e componendo un altissimo numero di paesaggi. La sua pittura, concentrata sugli scorci lacustri, sulle vedute del bosco che ne abbraccia le sponde e sulle case coloniche dei dintorni, appare come un inno bucolico fuori dal tempo. Tra impressionismo, suggestioni derivate da van Gogh ed esiti apertamente divisionisti, questa lunga serie di quadri solo in apparenza si discosta o devia dal Klimt più noto.
L’Attersee era già considerato una località turistica durante l’impero, e nei decenni successivi, fino ad oggi, non ha fatto altro che mantenere questa vocazione, badando al rispetto del territorio e delle sue caratteristiche originarie. Non è quindi difficile ripercorrere, quasi alla lettera, i sentieri seguiti dall’artista austriaco in cerca di concentrazione e soggetti da immortalare. Si narra che anche da queste parti, per quanto meta vacanziera, procedesse con identica disciplina, vestito per lo più col suo tipico grembiule blu da lavoro e dedito a orari ferrei: sveglia molto presto e ritiro altrettanto presto. Durante le sue camminate non mancava mai di portare con sé il taccuino da disegno e studiava meticolosamente ogni idea attraverso il cosiddetto mirino, un cannocchiale ritagliato da un semplice pezzo di cartone, poi evolutosi in un disco d’avorio e infine in un binocolo da teatro. Ciò spiega l’eccezionalità delle “inquadrature” che si osservano in queste tele, frutto non di panoramiche ma basate sulla riproduzione di dettagli spesso colti puntando lo sguardo mediato da tale strumento sulla superficie dell’acqua.
Come già era accaduto per l’Adele in oro e le Case a Unterach, quest’ultimo appartenente alla cosiddetta serie dell’Attersee, in tempi recenti anche il famoso Litzlberg am Attersee è stato restituito ai legittimi eredi ebrei dal Museo di Salisburgo, che a differenza dei casi precedenti non ha fatto opposizione. Questo quadro è stato battuto da Sotheby’s nel 2011 per quaranta milioni di dollari. La storia delle restituzioni è un racconto nel racconto ed è utile non solo per rendere un po’ di giustizia, seppure postuma, a chi fin da subito apprezzò la bellezza di certe opere, al punto da acquistarle o anche, in molti casi, commissionarle, ma pure per conoscere attraverso simili vicissitudini i modi in cui il gusto di un’epoca si è orientato attorno a loro. Da persecutori senza quartiere, i nazisti ne divennero avidi collezionisti.
Di questi paesaggi klimtiani ho avuto modo di parlare in occasione della curatela di un bel racconto di Lou Andreas Salomé, ambientato negli stessi luoghi della villeggiatura del grande pittore austriaco, pubblicato per la prima volta in Italia da Via del Vento edizioni. Sono poi tornata ai temi della necessità per l’essere umano di preservare un contatto con la natura con altre tre traduzioni di testi inediti della Salomé, uscite quest’anno grazie a Stampa Alternativa. Le atmosfere campestri qui evocate sono per certi versi simili alla serie dipinta da Klimt sull’Attersee. Queste mie pubblicazioni saranno oggetto di una rassegna, concepita proprio nell’incontro fra letteratura e arti figurative, che intende rendere omaggio alle possibilità creative sperimentate e accolte nei luoghi di montagna, a partire da due grandi menti che tale immaginazione hanno trasfuso nella loro opera.


(Di Claudia Ciardi)  




Attersee - 1900



Laghetto quieto nel parco del castello di Kammer sull'Attersee



Viale del castello di Kammer



Il parco del castello di Kammer



Il castello di Kammer II - 1909



Il castello di Kammer III



Casa colonica sull'Attersee - 1914



Case a Unterach



Litzlberg sull'Attersee


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Attersee.at







7 luglio 2018

Giorgio Caproni - Tema con variazioni






Nella raccolta Il muro della terra (1964-1975) la poesia di Giorgio Caproni passa in rassegna i gesti rituali del commiato, qui assunto a narratore di un horror vacui spiazzante, etereo nulla vagamente eterno, pure capace di scagliare la sua gravità materica su chi decide di andargli incontro o solo lo subisce. Questa intensa fiaba dell’esilio nelle sue articolazioni – giunture fisiche, tessuti organici che appartengono a un corpo unico di ombre e presenze – riproduce i toni di una possibilità del vivere (o del sopravvivere) minacciata, incalzata, che si aggrappa a resti di memorie, consuetudini umane nell’assenza evocate, lampade accese per far luce all’abbandono.
È un tempo che sconfina in un guado atemporale e che vorrebbe, immolandosi, traslare se stesso in un altro luogo, guadagnare una tregua ulteriore. Uno spazio e quel che ne resta, chi c’è stato o ancora rimane, che si offrono in bilico ma non dissolti. Non c’è sperpero, perché da lì la vita è passata e si è fatta osservare, e queste sue spoglie sembrano significare ancora un’attesa. Pensare di andar via per tracciare compiutamente il senso del restare, come l’ultimo della Moglia. Perché il non esserci di cose e persone scopre ancora le vertebre di un labirinto fossile, le architetture mentali di cui ogni attimo è rivestito, arginando quel vacuum senza volto senza orme, e che bastano a una testimonianza di verità, al perdurare di un’eco che così tanto e oltre scende nelle pieghe del ricordo. Qui tutto ciò riaffiora all’unisono, e anche negli accenti musicali, caldi, aspri, sussurrati, soffusi celebra le sue intuizioni.   
Musicalità campaniane ed estasi di natura. Una montagna ruvida, lasciata ma che comunque è stata ed è. Se come diceva Giovanni Raboni l’intera opera del poeta livornese è «un grande, struggente e severo canzoniere d’esilio», particolarmente nel Tema con variazioni Giorgio Caproni si aggira su una soglia che né ci invita a essere varcata né ci rassicura. Indugiarvi non si può, eppure «dal muro, nessun messaggero». Si è soli, dominati dalla nostalgia però anche consapevoli che il viaggio non è finito. Sceso il sipario sul Ballo a Fontanigorda, ma qualcosa di quelle carnali odissee campestri, di quella fulminante sacra epifania, forse ancora si lascia ascoltare in lontananza, forse ha ancora qualcosa da dire.   


(Di Claudia Ciardi)




Lasciando Loco


a André Frénaud


Sono partiti tutti.
Hanno spento la luce,
chiuso la porta, e tutti
(tutti) se ne sono andati
uno dopo l’altro.

Soli,
sono rimasti gli alberi
e il ponte, l’acqua
che canta ancora, e i tavoli
della locanda ancora
ingombri – il deserto,
la lampadina a carbone
lasciata accesa nel sole
sopra il deserto.

E io,
io allora, qui,
io cosa rimango a fare,
qui dove perfino Dio
se n’è andato di chiesa,
dove perfino il guardiano
del camposanto (uno
dei compagnoni più gai
e savi) ha abbandonato
il cancello, e ormai
– di tanti – non c’è più nessuno
col quale amorosamente
poter altercare?


Dopo la notizia


Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
Muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. Nemmeno
il cane di nessuno, che al vespro
sgusciava anche lui in chiesa
in questua d’un padrone. Nemmeno,
su quel tornante alto
sopra il ghiareto, lo scemo
che ogni volta correva
incontro alla corriera, a aspettare
– diceva – se stesso, andato
a comprar senno. Il vento
e il grigio delle saracinesche
abbassate. Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. Un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo.


Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia


Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via.

Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

Aspetto
e ascolto.

(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)

Mi sento
perso nel tempo.

Fuori
del tempo, forse.

Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciar me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.

Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

Certo
(è il vento degli anni ch’entra
nella mente e ne turba
le foglie) a volte
il cuore mi balza in gola se penso
a quant’ho perso. A tutta
la gaia consorteria
di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.
Alle matte risate,
la sera, all’osteria
dietro le donne. Alte
da spaccar le vetrate.

Ma non m’arrendo ancora. Ancora
non ho perso me stesso.
Non sono, con me stesso,
ancora sola.

E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.

Staccherò
dal muro la lanterna
un’alba, e dirò addio
al vuoto.

A passo a passo
scenderò nel vallone.

Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?


Versi incontrati poi


«We would not leave
our native home
for any world
beyond the tomb»



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