Di
origini lituane, Czeslaw Milosz (1911-2004) ha scritto e si è sempre espresso
in polacco, la lingua del paese che durante la sua infanzia comandava sul
Baltico, in senso politico e culturale. Il saggio La testimonianza della poesia
raccoglie le lezioni tenute all’università di Harvard, in questo caso in lingua
inglese, all’indomani del Nobel per la letteratura ricevuto nel 1980. Si tratta
di una serie di riflessioni che incrociano le fasi salienti della storia
europea tra le due guerre mondiali cui si lega il destino stesso della poesia,
pendolo meraviglioso oscillante su gorghi e naufragi.
È
anche l’occasione per l’autore di tornare alle radici, della propria lingua,
dei suoi cantori, del dissidio oriente-occidente, fatto di distanze ma pure di
travasi, dal classicismo al rinascimento, alla cultura francese ottocentesca adottata dall’aristocrazia russa.
In questa lunga esplorazione per epoche, luoghi e nomi della frontiera
mitteleuropea affacciata a oriente, Milosz rileva la frattura che attraversa il
poeta del Novecento in rapporto alla comunità umana. A differenza del
romanticismo, quando il legame era ancora forte, l’avvento dell’idea di
progresso nella seconda metà del secolo, sostenuto dall’ottimismo fideistico
nelle scienze e, di contro, responsabile di un arretramento dell’immaginazione,
soccombente alla misura razionale che riempie ogni spazio del vivere, generatrice di una
coppia di opposti spartita fra esattezza e sogno, causa il distacco definitivo della
poesia dalla cosiddetta grande anima popolare. Il poeta non sente più come una
necessità la rappresentazione di un’esperienza condivisa, il suo intento non è più portare alla luce
qualcosa in grado di entrare in sintonia coi suoi simili, ma dilegua, si chiude
in un individualismo autoreferenziale e malato. Crede infatti – agisca per
protesta o per convinzione elitaria – che l’arte debba parlare da sé,
svincolata da un mondo che si è fatto fosco, violento e indecifrabile. Un
secessus mundi in piena regola nella vana speranza che allontanarsi equivalga a salvarsi.
Milosz ci spiega che è questa una fuga effimera, riflesso peraltro di un rapporto con la cultura che è divenuto troppo funzionale, freddamente e meccanicamente, ai dettami della società. Fin dai programmi scolastici si assiste a un incasellamento delle attitudini del bambino, cui si sommano le aspettative degli adulti, che spesso soffocano le sue reali potenzialità con effetti deleteri per tutti, se di nuovo vogliamo pensare in chiave collettiva e non solipsistica. Un avvocato che voleva esser falegname, e magari mettere su una ditta, insomma fare l’artigiano, può darsi che sia diventato ugualmente un bravo professionista come può essere di no. In quel caso affronterà tante frustrazioni, che peraltro non gioveranno a tutti coloro che avranno a che fare con lui. E questo esempio non va interpretato nel senso della tipica dicotomia attività d’intelletto o manuali, perché anzi nella società sempre più complessa in cui ci troviamo son cose ormai destinate a intersecarsi in modo crescente. Va assunto nel suo portato psicologico. Sterminare una sensibilità e costringerla in un’altra direzione non è un atto privo di conseguenze.
Milosz ci spiega che è questa una fuga effimera, riflesso peraltro di un rapporto con la cultura che è divenuto troppo funzionale, freddamente e meccanicamente, ai dettami della società. Fin dai programmi scolastici si assiste a un incasellamento delle attitudini del bambino, cui si sommano le aspettative degli adulti, che spesso soffocano le sue reali potenzialità con effetti deleteri per tutti, se di nuovo vogliamo pensare in chiave collettiva e non solipsistica. Un avvocato che voleva esser falegname, e magari mettere su una ditta, insomma fare l’artigiano, può darsi che sia diventato ugualmente un bravo professionista come può essere di no. In quel caso affronterà tante frustrazioni, che peraltro non gioveranno a tutti coloro che avranno a che fare con lui. E questo esempio non va interpretato nel senso della tipica dicotomia attività d’intelletto o manuali, perché anzi nella società sempre più complessa in cui ci troviamo son cose ormai destinate a intersecarsi in modo crescente. Va assunto nel suo portato psicologico. Sterminare una sensibilità e costringerla in un’altra direzione non è un atto privo di conseguenze.
È
così che Milosz ci ricorda il potere dell’immaginazione, non misurabile secondo
regole scientifiche, ma forza creatrice immanente al tutto, sostanza millenaria
dell’avventura umana che non può essere imbrigliata, ignorata né ridotta a un
esercizio solitario di pochi. Perché questa corrente immaginifica e per certi
versi visionaria scorra è infatti necessario tenere l’orecchio attaccato alla
terra e a quelli che ci camminano. Non è un caso che all’inizio della
dissertazione parli di una credenza popolare. Da giovane uccise una serpe
d’acqua, animale depositario di una sacralità unanimemente riconosciuta dalle
sue parti, e ammette di essersi trascinato per molto tempo il senso di colpa
originato dall’aver tradito un culto pagano, cui riconosce una capacità di condizionarlo in profondo, perfino più dell’educazione cattolica, che pure è stata preminente nella sua vita.
Ciò serve a dimostrare la stratificazione che compone i nostri immaginari e dunque quella potenza mai completamente enunciabile che nutre il dettato poetico.
La
storia europea del primo Novecento, che particolarmente per la Polonia e i
paesi che da lei dipendono irrompe sotto l’aspetto di un regno di rovine e
annientamento, diviene un banco di prova per i letterati, spinti dal bisogno di
restituire un significato a una realtà in fuga, attorta e quasi astratta in
conseguenza del suo sconfinato sovvertimento. Si tratta di elaborare
l’esperienza, una dura impronunciabile esperienza, e un’intera generazione di
poeti e scrittori polacchi fa proprio questo, non senza mettere in
discussione la cultura occidentale e le sue strutture, ritenute
responsabili di aver generato il catastrofico inganno che ha preso le sembianze della
guerra.
Nella letteratura la poesia soprattutto, per una capacità quasi
divinatoria che ne è elemento sostanziale, ha il compito di farsi ponte e allo
stesso tempo gettare uno sguardo al di là, non chiudersi in se stessa ma indicare
altre sponde, dare un segnale di vita, anche nella distruzione. «Lo stato della
poesia in una determinata epoca può dunque testimoniare il dinamismo o il
prosciugamento delle sorgenti vitali di una civiltà. […] L’atto poetico cambia
a seconda di quanta realtà la coscienza del poeta abbraccia come sfondo. Nel
nostro secolo lo sfondo è dato, secondo me, dalla fragilità di tutto ciò che
chiamiamo civiltà o cultura. Quello che ci circonda, qui, ora, non è più garantito.
Potrebbe scomparire: e l’uomo costruirebbe la poesia con i resti rinvenuti tra le
rovine».
Messaggio
di perseveranza e fedeltà al grande sogno umano, a patto che non venga meno la
sensazione di condividere le sorti di un organismo unico e di abbandonarsi al
suo respiro colmo di tutte le epoche del mondo.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione:
Czeslaw Milosz, La testimonianza della poesia. Sei lezioni sulle vulnerabilità del Novecento, a cura di Andrea Ceccherelli, Adelphi, 2013
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