22 novembre 2014

La poesia delle Apuane



Rolando Alberti
L'estremamente magico
a cura di Enrico Medda e Guglielmo Fiamma
Miraggi Edizioni, 2013


Ho ricevuto in dono questo libro all’inizio dell’anno. Scoprire le Alpi Apuane dai componimenti di chi le vive, è stata un’esperienza insolita e perfino sorprendente. Rolando Alberti, classe 1971, nato a Forno, piccolo borgo immerso nell’aspra bellezza dei monti apuani, è pastore e poeta.
La recensione che alcuni mesi fa ho dedicato al suo lavoro si può leggere qui:
Ciò che scrive è il frutto di una consuetudine ininterrotta con i luoghi dove l’uomo si regge sulla pietra in un equilibrio faticosissimo, prigioniero di quelle leggi di natura cui non sfugge essere alcuno ma che qui si avvertono più vicine e ineludibili.     
Tornare a parlarne mi permette forse di dire ancora qualcosa su una poetica scaturita da un paesaggio che è estremamente familiare anche alla mia persona, avendovi trovato la mia immaginazione più di una risorsa. Nei versi di Alberti s’incontrano una saggezza arcaica e uno stato per così dire di sospensione cui spontaneamente si abbandona chi affonda radici e ragioni della propria esistenza in una terra di frontiera, isolata e contesa tra roccia e mare. Tali sono le Apuane, confine abitato da genti guerriere, dalle loro imprese e credenze, sogni e ombre che nei secoli hanno popolato quei crinali e quei sentieri, e nessuno può attraversarli senza che la sua mente se ne senta afferrata. 
Orizzonte fantastico vestito d’inquietudine, l’incantamento che produce in colui che l’osserva è sempre sul punto di mutarsi in qualcosa di diverso eppure ogni volta sfuggente. Tutto sulle cime appare oggetto di trasfigurazione, anche il tempo. E il pastore vi presiede come un errante, consapevole delle parabole e dei limiti in cui si aggira ma rassicurato anche da una dimensione cosmica, nella quale gli eventi ininterrottamente fluiscono e ogni legame, ogni gesto si ritrovano ben oltre il presente. La geografia della montagna sembra farsi depositaria di quanti lì hanno speso i loro giorni in affanno o serenità, nel ciclico passare degli anni. Una visione consolatoria, perché nel profilo di quei sassi sarà un giorno chi, uscito dalla propria condizione terrena, si troverà riunito all’essenza che governa il mondo. In questo canto delle generazioni, costellato di attese e fughe paniche, non pochi sono i tributi alla poesia omerica, alla discesa dantesca, alle vivide estasi foscoliane, principalmente raccolte attorno a quell’indelebile trapasso che è il sonetto Alla sera. Affiorano non già come citazioni ma piuttosto nelle vesti di spiriti delle leggende alpine, preposti ad accendere bagliori negli assoluti quotidiani e non certo a dare spiegazioni circa la loro natura.
Se la vita umana, dice Alberti, è una scheggia uscita dall’eterno, soggiogata alle regole del qui e ora, e dunque anche all’alternanza di memoria e oblio – richiamo forse involontario all’inconciliabile separatezza tra uomini e dèi come la descrive Pavese nei suoi Dialoghi con Leucò – allora, anche il corpo si aggira in preda al dubbio fra quella che è la sua finitezza e la coscienza di un altrove, che nei momenti più solitari pare quasi rivelarsi. Questione di attimi, come quando scendono nell’aria i colori dell’imbrunire o tra i ruderi di un casale si rinviene l’incisione di una data, piccole epifanie che subito dissolvono, lasciando dietro di sé nient’altro che un’eco flebilissima incapace di farsi intendere. Andare verso questo ulteriore che in alcune circostanze sembra caparbiamente insinuarsi nei nostri pensieri, può rasserenare ma talora anche sconvolgere.  
I sortilegi gettati dalla luna sulle pareti dell’alpe, i «nidi di luce» che accendono il mare al tramonto mentre il buio avanza dappertutto, i fantasmi che vegliano i passi, i lampi che fendono la notte, la voce dei torrenti divengono allora volti di un’epica sommessa, cantata tra il poeta e il monte, in cerca di una conferma che le sue orme non saranno completamente disperse ma il tempo saprà unirle al cammino di altri e così infinitamente nell’infinito crearsi delle cose.

(Di Claudia Ciardi)
    
«Quelli che scrivono non danno importanza solo ai loro 70 anni di vita e 70 chili di peso. E quelli lì sviluppano la parte umana che ci caratterizza, che va al di là del nostro mangiare, del nostro dormire, del nostro egoismo».

«L’immediato è troppo infinitesimale, non per moltiplicazione, per divisione… quindi noi viviamo in uno stato di allucinazione, di pre- e postallucinazione. Il tempo è allucinazione».

«Sì, siamo limitati dalla fisicità. Purtroppo abbiamo una fisicità di cui tenere conto. E da lì Ulisse risale in superficie e dopo parte. Poi incontra le Sirene. Le Sirene rappresentano il vizio, perché il vizio cos’è? Il vizio è la totalità del benestare, cioè il benessere. Invece l’uomo deve essere capace anche di soffrire e Ulisse in questo caso incontra le Sirene, le ascolta, si fa legare, soffre, impara e soffre e va. Dopo incontra Scilla e Cariddi, il male minore e il male peggiore. L’uomo è capace di scegliere, non tra il bene e il male, che è una cosa semplicissima – tutti lo sappiamo fare – ma tra male minore e male maggiore, tra Scilla e Cariddi. E dopo arriva all’isola del dio Sole, che vede tutto. Il sole rappresenta il nostro interiore, il nostro ego, e lì si trova a combattere non solo contro se stesso, ma anche contro le lusinghe degli altri. E grazie alle lusinghe degli altri si trova in disgrazia. Quindi si trova sull’isola dei Feaci, e lì contro la magnanimità di Alcinoo non possono fare nulla nemmeno gli dèi, cioè, contro il bene umano… se l’uomo sceglie di concedere la grazia all’altro uomo, gli dèi non possono intervenire, perché l’uomo si alza a qualità di dio, perché ha la capacità di scegliere fra il bene e il male».

(Rolando Alberti)


Alpi Apuane e acrocoro dei Monti Pisani da Boccadarno (agosto 2014)  - disegno di Claudia Ciardi

14 novembre 2014

Torneranno i prati




Titolo: Torneranno i prati
Regia: Ermanno Olmi
Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti
Genere: drammatico
Durata: 85 min.
Anno: 2014

Vigilia di Caporetto. Un avamposto in quota sul fronte nord-est. Dopo i disastrosi scontri del 1917, quel che resta dei contingenti giace sfiancato, sepolto sotto metri di neve. La trincea è un inferno sotterraneo, che la montagna si sforza di occultare. Assediata dai rigori dell’inverno, la guerra sembra non esistere più. Gli uomini sono occupati a sgombrare i passi ai portatori. Si sente solo il rumore cadenzato e metallico delle pale, e tra le valli il cupo brontolio dell’artiglieria, prima lontana, poi più vicina e invadente, a ricordare che sull’altopiano di Asiago si lotta ancora. 
È un film in punta di piedi, quest’ultimo girato da Ermanno Olmi. Laddove la guerra è clamore e spesso, nel cinema, ridondante spettacolarità, il regista sceglie un tono pacato, musicalmente si direbbe un pianissimo che anima sia le voci dei protagonisti, voci di fantasmi, di sopravvissuti, sia le immagini. La stessa colonna sonora di Paolo Fresu si limita a scortare l’indicibile quotidianità in cui tutti sono prigionieri, senza strappi senza enfasi. Fabio Olmi, figlio del maestro, compie un lavoro impeccabile sul piano fotografico, giocando il dentro-fuori in una quasi monocromia tra ocra e grigio, servendosi di colori desaturati che proprio nella loro sfocatura pongono in risalto la prostrazione degli uomini e la cornice alienante in cui le loro vite sono incastrate. Le montagne immense e spettrali non hanno nulla di rassicurante. Il canto del soldato napoletano che scalda i cuori dei commilitoni, e anche dei “vicini” di trincea austriaci, è appena un sussulto nato per caso dalla bellezza fiabesca del plenilunio. Ma come vanno le cose nelle fiabe, pure su questa breve tregua son più le ombre a gravare dei sentimenti positivi.    
Ci si attacca a quel poco che ancora, seppure flebilmente, lega al mondo: la corrispondenza – e c’è chi non riceve neppure quella perché ormai nessun familiare si ricorda di lui – un topo che gira in mezzo alle brande in cerca di molliche di pane, una volpe a caccia sul crinale, un larice sfogliato, apparizione estrema di una resistenza che pare compartecipe della sorte dei soldati.
Perfino la neve, per quanto sia un elemento così pervasivo sulla scena, ha un carattere sfuggente e in quel suo non essere mai del tutto bianca assume una connotazione infida, dove la morte sta acquattata in attesa di sorprendere le sue vittime. Tale straniamento accresce a dismisura l’inutilità dello stare lì e il senso di impotenza; la trincea è un buco claustrofobico, specchio delle ansie di chi la occupa, sempre sul punto di collassare. Nell’attesa snervante che tutto sia compiuto, senza che però se ne abbia un’idea precisa, l’avversario più temibile è il crollo emotivo. Quello che obbliga l’ufficiale a rinunciare ai gradi, consegnando il comando a un giovanissimo tenente. Il suo incarico è organizzare la difesa finché il comando provveda a inviare un sostituto adeguato. In un’ora la sua vita cambierà per sempre. Si troverà coinvolto nel martellamento dell’artiglieria nemica, avrà esperienza diretta di quanto la morte colpisca con cinica e sconvolgente rapidità e di come tutto ciò nella percezione di chi rimane in piedi finisca per divenire una sorta di abitudinaria perversione. 
La guerra obbliga a convivere con un abbrutimento bestiale di sé, perché è lei stessa «una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai», come si legge nella chiosa del pastore Toni Lunardi, alla fine del film.
La metamorfosi è dunque avvenuta, la neve sulla trincea si è fatta nera. Prima esisteva solo un’ipotesi del dramma, adesso la desolazione ha riempito tutti gli spazi. Già Monicelli aveva reso l'idea di ciò che poteva essere il bombardamento di una posizione. Ma il suo racconto si giocava sulla distanza. Sordi e Gassman, in missione per un carico di filo spinato, osservavano da una posizione arretrata quel che accadeva qualche metro sopra le loro teste. La mattina dopo si ritrovavano a camminare sui resti della loro trincea, scoprendo l’orrore della distruzione. Qui invece la furia della battaglia è narrata da dentro, dall’impetuoso cadere degli oggetti, dal tremore degli uomini, paralizzati o scaraventati per aria, dall’assordante sequenza dei colpi, cose che travolgono in blocco la sintassi della trama, imponendosi ancor più per l’esplicito contrasto col tono che le precede. 
Sulla traccia di Federico De Roberto, che dapprima fu favorevole alla guerra e poi si liberò della retorica statalista, pubblicando nell’immediato dopoguerra dei racconti estremamente incisivi, Olmi crea una sequenza densissima, all’insegna del rigore storico e dell’attinenza alle fonti, fedele alle atmosfere già disvelate in Il mestiere delle armi.
Restando sul versante letterario, oltre a La paura di De Roberto, vi è un bagno sulle rive surreali di Il deserto dei Tartari. Questa immersione nelle coordinate di Buzzati conferisce la cadenza alla guerra di Olmi. Tanto scavo psicologico, la trincea-labirinto si replica ossessivamente nei pensieri dei protagonisti, assediandoli più della guerra reale. Puro logoramento dei nervi dove anche la malattia con cui il film si apre, un’influenza che viene dai Balcani – «tutti i mali vengono dai Balcani» dice l’ufficiale mentre fa rapporto al Maggiore – è una febbre che toglie energie ma dà l’impressione di seminare dietro di sé, e soprattutto dentro chi ne è colpito, qualcosa di ben più atroce. Si intuisce che gli uomini, quelli che metteranno il capo fuori dalla catastrofe, non saranno mai più risanati.    
  
(Di Claudia Ciardi)




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Federico De Roberto - La paura nella Grande Guerra

6 novembre 2014

Il Leopardi di Martone, favoloso e commentatissimo




Già prima di stendere la mia recensione avevo letto parecchi pezzi dedicati a «Il giovane favoloso». Ho poi voluto flagellarmi in via ulteriore, incuriosita dal tam tam della rete; così mi sono addentrata nella marea di commenti firmati da martoniani e antimartoniani. Dopo che sotto gli occhi mi è passato praticamente tutto e il contrario di tutto, dopo aver sentito scomodare altrettante glorie della letteratura e della filosofia per supportare o distruggere tesi – e ho trovato la cosa molto bizzarra sotto il profilo antropologico, cioè toccare con mano questa inconsulta animosità sulla riuscita o meno di un film – vorrei spendere ancora due parole al riguardo.
Il film nasce di per sé come rappresentazione, essendo il cinema un mezzo per l’appunto rappresentativo, perché si serve di immagini. Rendere la poesia sullo schermo è un’operazione complessa, forse perfino contraddittoria, visto che si tratta di conciliare due mondi, non dico in conflitto, ma certo saldamente fondati su premesse opposte. Da una parte l’evidenza e l’immediatezza di quel che si vede, dall’altro quel lungo, inattingibile lavorio interiore che presiede alla scrittura e che, nel caso della poesia, è introspezione allo stato puro. Un dibattito simile si è accompagnato al testo teatrale, scritto per essere recitato, per la sua dimensione pubblica: quindi una scrittura corale che il poeta ha in mente per questo suo carattere finitimo alla destinazione e che tuttavia può essere letta e capita anche prescindendo dalla messa in scena. Pensiamo a un dramma pirandelliano o a una tragedia greca, dove più ancora sono gli elementi giocati sulla teatralità: li leggiamo come si legge un romanzo e non ne abbiamo certo uno stravolgimento di senso.  
Ora, a me pare Martone ne sia uscito piuttosto bene. È un film con i suoi limiti, magari qualcosa di meglio poteva venirne fuori, ma sinceramente sostenere che si è persa una grande occasione per far rivivere Leopardi e che Martone ha girato centotrentasette minuti di pellicola a vuoto lo ritengo pretestuoso. Per tacere di chi si è sentito offeso, uscendo dal cinema addirittura infuriato. Lo scrivo qui non per difendere l’opera di Martone a tutti i costi ma perché il tono di certi commenti mi permette di riflettere su un aspetto di cui avrei voluto parlare da tempo. C’è un atteggiamento che somiglia a un a priori di superiorità nel quale mi sono imbattuta tante volte tra i miei connazionali. Una cosa che non me li fa rimpiangere affatto quando sono all’estero. Questo voler criticare tutto per forza, rasentando il compiacimento, proprio perché nulla ci piace. Così la nona sinfonia di Beethoven è roba superata e «m’illumino d’immenso» di Ungaretti son due paroline, pure un po’ scontate a ben guardare, buttate lì tanto per fare sensazione. Porto questi esempi perché si tratta di esperienze dirette:  sono passata da fessacchiotta avendo osato manifestare in pubblico un interesse per queste due cosucce superate.
Rilancio con un altro esempio. C’è una mostra, una retrospettiva dedicata a un pittore e subito nascono le fazioni: “che mostra idota” – c’è chi mette le mani avanti – “di sicuro non ci andrò, perché l’unica vera mostra del cotale pittore si tenne due anni fa nella cotale città e quella sì valeva la pena”. Oppure: “Io l’ho già visto in tutta Europa, cosa m’importa di vedere nella cotale città di provincia la cotale mostra!”. E avanti. Tra parentesi a volte nelle cosiddette “retrospettive provinciali” ci sono dei gioielli che non si riescono a vedere neppure nella città d’origine di un artista. Aggiungo che ogni iniziativa può essere bella di per sé, rivelare qualche dettaglio che nelle nostre precedenti ricognizioni ci è sfuggito.  
Tutto per dire che superate a me sembrano essere principalmente le persone che nei confronti della vita hanno questa malcelata spocchia. E tante volte quella che è presentata come cultura solo perché produce un'affilatissima critica si scopre invece essere una preparazione deficitaria sulle cose che si liquidano come “già viste e già sentite”.
Leopardi, “il pessimista cosmico” (io ad esempio questa definizione, mi perdonino gli italianisti, non l’ho mai capita), il nostro Leopardi nell’osservare una simile profusione di armi critiche puntate sul film della sua vita, si sarebbe fatto delle belle risate. A Martone, lo ripeto, va il merito di aver risvegliato un interesse verso il poeta. Se vi fate un giro in libreria troverete in zona Leopardi delle pubblicazioni che mi chiedo se si sarebbero viste in assenza del film. I librai si sono sentiti in obbligo di ordinarle e anche questo, secondo me, è un gran bene. Colgo l’opportunità per segnalare il grazioso volumetto sulla corrispondenza del poeta da Roma, ritratto impietoso della città eterna, pubblicato nella collana UTETextra. Potete vederlo qui:
Ne parleremo in uno dei prossimi articoli.
Oltretutto il regista sbeffeggia magnificamente l’intellettualismo cattolico mascherato di azione e sani principi che imbrigliava il paese nell’Ottocento. Anzi, avrebbe potuto essere molto più cattivello e mordace. A chi non è andato giù il ruolo di Leopardi “genio ribelle” perché ciò si collocherebbe “oltre la letteratura” (ho letto anche questo!) dico semplicemente: Leopardi era un genio, in rivolta con la sua epoca. La sintesi è nella sua poesia.

(Di Claudia Ciardi)

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Il giovane favoloso - la recensione di Margini in/versi 

2 novembre 2014

Jason Lutes - Berlin. La città delle pietre





L’espressione viene da un
feuilleton di Joseph Roth uscito su «Das Tagebuch» nel 1930. Ma la città di pietra è prima di tutto il titolo di un libro, chiamato in causa da Roth proprio nel suo pezzo, scritto da Werner Hegemann e pubblicato da Gustav Kiepenheuer. Questa premessa, forse un po’ pedante, su chi ha citato per primo chi, serve più che altro a capire quanto Jason Lutes si sia mosso con scrupolosità da filologo nella costruzione delle sue tavole su Weimar. Ciò che gli ha permesso di firmare una storia non solo estremamente articolata ma anche rigorosa dal punto di vista del ritratto sociale e dello scavo psicologico dei personaggi. Siamo di fronte a un vero e proprio romanzo a fumetti, un’opera corale suddivisa in due volumi, narrazione storica di vasto respiro della quale Lutes si fa pioniere e interprete, mantenendo per l’intero racconto una freschezza di tratto e un’attenzione al dettaglio che gli sono valse meritati riconoscimenti in diverse parti del mondo. 
Il periodo è quello tormentato della Repubblica di Weimar alle sue ultime battute (dal settembre 1928 al primo maggio 1929), quando i segnali di cedimento si fanno sempre più scoperti. È la Berlino dei sussulti politici, la metropoli dei grandi assembramenti, dal traffico ai comizi operai, ma anche lo spazio dove si aprono improvvise zone di solitudine, tagli astratti in un organismo pieno zeppo di illusioni.
Un’atmosfera catturata dal continuo andirivieni della matita di Lutes che segue i suoi protagonisti dalla strada al chiuso delle loro stanze, dalla concitazione delle attività cui sono intenti allo straniamento delle ore notturne. E tuttavia proprio la notte si popola di sogni, a volte incubi, di incontri, confessioni, immaginazioni, di finestre aperte su vie deserte lungo i binari, e surreali distese innevate che nessuno calpesta.
Le fonti del disegnatore sono innumerevoli, sia lo si è detto, per quanto riguarda il versante testuale, sia per il complesso bagaglio grafico. Si coglie tra gli altri più di uno spunto dal “diario” berlinese di Masereel, almeno nella rappresentazione per così dire filmica degli scorci metropolitani, e più ancora nel dialogo lirico tra architetture e passanti. In effetti proprio il Mein Stundenbuch dello xilografo espressionista è un’altra citazione importante che Lutes non si lascia sfuggire, quando si sofferma sulla caratterizzazione dell’Accademia d’arte. Marthe Müller è una giovane corsista che ha lasciato Colonia per andare a studiare nella capitale. La sua è una fuga dall’oppressione paterna e dalla scelta obbligata di sposarsi. Sul treno diretto in città incontra Kurt Severing, giornalista per «Die Weltbühne», la testata di Carl von Ossietzky, che sarà poi perseguitato dai nazisti. Severing è un uomo galante ma deluso dalla vita. La sua situazione – una ex dalla quale non ha avuto figli e con cui il rapporto è finito senza un motivo preciso – e la consapevolezza che dietro le crescenti tensioni sociali si prepara qualcosa di fosco, ne fanno una strana mescolanza di cinismo ma anche voglia di ritrovare una complicità che percepisce come essenziale alla sua sopravvivenza. Marthe, delusa a sua volta dalla promessa di successo e emancipazione della grande città, per ragioni più o meno complementari, ne diviene l’amante. Questo binomio, sfondo al denso corteo di fatti e figure che con disinvoltura si dipana dalla penna di Lutes, per un verso funge da contraltare alla complessa vicenda weimariana – il messaggio è che alla fine pur nella difficoltà dei tempi, il sorgere spontaneo di un sentimento è qualcosa si inarrestabile e confortante – dall’altro rischia di peccare di qualche ingenuità proprio nei modi in cui il rapporto si costruisce. Dopo appena una settimana di lavoro ai magazzini Wertheim per provare a cavarsela da sola, Marthe decide che la cosa non fa per lei, casualmente ritrova nella tasca del cappotto il biglietto da visita di Severing, bussa al suo appartamento la notte di Natale, un calice di vino, finiscono a letto, lui provvede subito a pagarle l’affitto arretrato: fin troppo facile. Certi luoghi comuni sarebbe stato meglio lasciali fuori della porta, se non altro perché stridono non poco con le violenze e gli enormi problemi economici disegnati attorno alla coppia. In mezzo vi sono infatti le commemorazioni del 9 novembre 1918, le riunioni dell’Internazionale comunista, il ricordo dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, l’esistenza ghettizzata di operai ridotti alla fame, invalidi di guerra costretti all’accattonaggio, immigrati ebrei che vivono di espedienti e soffrono la discriminazione, pestaggi molto duri tra manifestanti che chiedono lavoro e poliziotti con l’ordine di sfollare. 
Sono i tanti volti di un’emarginazione che Lutes fa affiorare con delicatezza dalle sue pagine, comparse legate a non più di una manciata di tavole, che subito cedono il passo al ritratto di altri, salvo poi essere recuperati insieme, in dialoghi dove la sorte individuale si intreccia sempre e comunque alle istanze sociali. Degni di nota anche certi assoli nei quali i protagonisti sono en face col paesaggio, quasi dei fermi immagine che creano repentini squarci nel vortice degli eventi, lasciando la trama come sospesa.
Ognuna di queste apparizioni è tracciata con accuratezza ed è in buona sintonia con le principali corde su cui balla la storia tedesca del Novecento. Temi a lungo dibattuti che in molti casi presentano nodi ancora da sciogliere. 
La prima parte del racconto si conclude con il corteo della festa dei lavoratori, la carica “a freddo” della polizia che irrompe tra i manifestanti e che, dopo aver seminato il panico, apre il fuoco. Epilogo pendente sulla vicenda già dal suo avvio, per quelle ombre che Severing definisce “presentimenti” e che dal treno non lo mollano fino all’arrivo a Berlino, ma soprattutto per quelle essenze mute e larvali, vaganti da un portone all’altro, da una piazza all’altra, con le loro aspirazioni e il loro carico di incertezze, che improvvisamente si sentono svegliate dalla storia e chiamate a prendervi parte.  

(Di Claudia Ciardi)




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