25 marzo 2016

Umberto Saba - Trieste






Il grazioso librino a firma di Davide Rossi, direttore del Centro Studi Anna Seghers di Milano, è un tributo a una delle più importanti figure della poesia italiana, Umberto Saba, e alla sua Trieste, città natale cantata con sognante dimessa malinconia in un dialogo mai venuto meno, dove l’io lirico scaturisce dal luogo, ricreandone di volta in volta identità e contorni nel proprio spazio interiore. Come ebbe a dire in tarda età, attanagliato dall’amarezza del disincanto politico, in polemica col centrismo democristiano, sotto il cui ombrello prosperavano disinvoltamente non pochi fascisti che avevano fatto il buono e il cattivo tempo, «se la mia poesia è – come ogni poesia – un’interpretazione del mondo, questo mondo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio, o da Firenze. E nemmeno da Roma. È già “l’altro mondo”, quello che gli italiani non possono assimilare». Non si sentiva dunque capito, Saba, e legava questa incomprensione al naufragio rovinoso della complessità culturale cui apparteneva, in altre parole la vertigine della frontiera. Storia di una città multietnica per secoli sospesa tra mondo germanico e slavo, tra Italia e oriente, patria di aristocratici, mercanti, avventurieri, che difficilmente avrebbe saputo rassegnarsi alla perdita delle proprie vocazioni dopo il crollo degli imperi seguito alla prima guerra mondiale, con cui finì pure l’egemonia dell’Europa al di fuori del continente.
Nato nella città giuliana il 9 marzo 1883, all’epoca sotto gli Asburgo, Saba era figlio di un commerciante di origini veneziane, Ugo Poli, e dell’ebrea triestina Felicita Rachele Cohen. Abbandonato dal padre, che dopo le nozze riparatrici e la frettolosa conversione alla religione israelitica non volle comunque vederlo nascere, facendo perdere ogni traccia di sé, il piccolo Umberto venne alla luce in una situazione familiare non certo bella. La madre, caduta in depressione, lo affidò a una balia slovena, tale Peppa Sabaz, nome leggendario degno di una fiaba, cui più tardi il giovane legò il suo esordio letterario. La donna lo crebbe con straordinario affetto, finché la madre si decise a riprenderlo con sé, attirandolo nell’orbita delle due sorelle, quelle zie la cui letterarietà non è inferiore alla buona nutrice. Le tre donne praticavano con profitto un commercio di mobili, che più tardi permise a Saba di vivere piuttosto agiatamente in Toscana, prima nei mesi trascorsi all’università di Pisa e quindi a Firenze, tra gli amici che animavano «La Voce», la rivista che fece conoscere il poeta in Italia. 
Questo prima della Grande Guerra, quando la corona austriaca valeva al cambio tre lire e Trieste prosperava sulla propria centralità di porto imperiale. Fino al 1914 il panorama editoriale della città vantava otto quotidiani in quattro lingue (italiano, tedesco, sloveno, croato). A distanza di quasi cento anni dagli eventi, in un volume storico stampato da «Il Piccolo», di cui mi ha fatto graditissimo dono il mio amico triestino Nereo Polo, la primavera del 1914 è efficacemente descritta come «uno dei momenti di incoscienza collettiva più incredibili della storia». Ai primi di marzo Francesco Ferdinando e la consorte si recarono al castello di Miramare. A quanto pare le loro fughe da Vienna verso il sud erano piuttosto frequenti, a causa delle continue umiliazioni ricevute a corte dall’arciduchessa. In aprile vennero raggiunti da Guglielmo II. Una foto d’epoca ritrae la scialuppa reale mentre sta attraccando ai piedi del castello, il re prussiano seduto al centro, in attesa che la manovra sia completata. Sebbene si tratti di uno scatto in bianco e nero, doveva essere una bella giornata di sole. E col bel tempo a Miramare ci si può sentire a un passo dal paradiso. Sembravano tutti tranquilli in quest’ultima primavera senza guerra.
I triestini, insieme ai trentini, furono i primi a essere mobilitati. I reparti, al cui interno vi erano pure italiani irredentisti, vennero schierati sul fronte orientale. Per molti di questi soldati si trattò di un conflitto nel conflitto. Gli austriaci, spiazzati dall’intervento della Russia a sostegno dei serbi, si trovarono sguarniti proprio in quelle remote zone di confine – Polonia, Galizia, Ucraina – dove le inefficienti ferrovie imperial-regie faticarono per settimane a trasferire i propri soldati. In Galizia i russi si fecero trovare pronti assai prima degli uomini appartenenti alla Triplice Alleanza. Tra il 6 e l’8 settembre del ‘14 le truppe zariste sfondarono le linee nemiche conquistando Leopoli e arrivando quasi a Cracovia. Una scena descritta molto bene nelle sue memorie dall’amico di Joseph Roth, Soma Morgenstern, che racconta di una fuga rocambolesca da casa, insieme ai suoi familiari, lasciando la tavola apparecchiata per il pranzo. Proprio davanti a Leopoli operava il 97° reggimento, con sede a Trieste, che subì il settantacinque per cento delle perdite, tra morti e prigionieri. A tale proposito vale la pena ricordare la testimonianza di Mario Rigoni Stern: «Coloro che non caddero finirono prigionieri dei russi, e un cupo silenzio e un’ansia di notizie scesero sulle province italiane di governo asburgico».
Per Saba la guerra ebbe il volto di molti mestieri che fortunatamente lo tennero al riparo dalle zone più disastrate del fronte. Munito di passaporto italiano, unica eredità di quel padre sconosciuto, gli venne risparmiata la militanza presso gli Asburgo. Nel lungo periodo delle ostilità fu militare in caserma, dattilografo, collaudatore, traduttore dal tedesco per i prigionieri austriaci.
Davide Rossi è molto abile a farci entrare con brevi cenni nella stratificata vicenda storico politica di Trieste che accompagna per intero l’avventura umana e letteraria di Saba. La fine della potenza asburgica, coincise con l’inizio di ristrettezze. Assottigliati se non azzerati i risparmi di famiglia, a causa del nuovo cambio sfavorevole fissato dal governo italiano, il cognato dette al poeta una mano assumendolo nella sala cinematografica che dirigeva in Via XX Settembre. Un episodio degno del miglior Wim Wenders, quello di Im Lauf der Zeit per intendersi. Poi, finalmente, l’occasione benedetta di rilevare la libreria antiquaria Mayländer di Via San Nicolò, che da lì in avanti, pur tra le interruzioni dovute alle leggi razziali e della seconda guerra mondiale, fu il rifugio sicuro in cui attingere al suo testamento spirituale, il Canzoniere
Con l’armistizio del ’43 Mussolini cedette la città al Reich che ne fece una provincia tedesca ribattezzata Adriatische Kustenland, e il poeta attese l’arrivo degli alleati a Firenze, grazie all’ospitalità di Eugenio Montale, Ottavio Cecchi e Carlo Levi, per poi trasferirsi a Roma, prima del definitivo rientro a Trieste. La liberazione gli portò in regalo il Premio Viareggio, vinto col suo Canzoniere nel ’46, stampato da Einaudi l’anno prima. Autobiografia in versi ispirata all’ermetismo di stampo montaliano, opera sui generis senza eguali nella lirica italiana novecentesca, se non qualche consonanza con la ricerca di Alfonso Gatto.   
Il decennio di controllo statunitense sulla città, formalmente libera, fu vissuto da Saba con non poche preoccupazioni. Temeva una nuova escalation del conflitto che avrebbe gettato Trieste nella nuova stessa situazione della Palestina. La storia pur tra alti e bassi ha seguito però un corso diverso, restituendole, se non il passato prestigio, almeno una certa prosperità negli scambi e nelle attività commerciali, grazie alla posizione di cerniera tra est e ovest. In modo scherzoso ma estremamente icastico «a Trieste si usa dire che l’est inizia al caffè Fabris all’angolo tra piazza Dalmazia e via Romagna e finisce a Vladivostok». 
Oggi le cose sono di nuovo cambiate. La crisi picchia duro e il triestino, mite e riservato per natura, non può fare a meno di lamentarsi di una città che vede in affanno, in parte svenduta in parte svuotata. Eppure il luogo ha in sé tantissime risorse, energie e un fascino invidiabile che il tempo non scalfisce. Io mi sento di consigliare questa lettura a tutti coloro che desiderano capire qualcosa in più della poesia di Saba e necessariamente del carattere di Trieste. Da queste pagine si entra in punta di piedi in un regno meraviglioso che in maniera sintetica ma non incompleta riusciamo a contemplare nella sua interezza. Un bagaglio leggero e prezioso con cui avviarci alla conoscenza di un luogo che ha di sicuro ancora moltissimo da esprimere e che non mancherà di ammaliare altri artisti nelle future generazioni. 

(Di Claudia Ciardi)


Umberto Saba,
Trieste,
a cura di Davide Rossi,
Mimesis edizioni, 2013


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Trieste

Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,                                              
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l'aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Da “Trieste e una donna”, 1910-12


Il garzone con la carriola 

È bene ritrovare in noi gli amori
perduti, conciliare in noi l’offesa;
ma se la vita all'interno ti pesa
tu la porti al di fuori.

Spalanchi le finestre o scendi tu
tra la folla: vedrai che basta poco
a rallegrarti: un animale, un gioco
o, vestito di blu,

un garzone con una carriola,
che a gran voce si tien la strada aperta,
e se appena in discesa trova un’erta
non corre più, ma vola.

La gente che per via a quell’ora è tanta
non tace, dopo che indietro si tira.
Egli più grande fa il fracasso e l'ira,
più si dimena e canta.

Da “La serena disperazione”, 1915


La mia infanzia fu povera e beata 

La mia infanzia fu povera e beata
di pochi amici, di qualche animale;
con una zia benefica ed amata
come la madre, e in cielo iddio immortale. 

All’angelo custode era lasciata
sgombra, la notte, metà del guanciale;
ma più cara la sua forma ho sognata
dopo la prima dolcezza carnale.

Di risa irrefrenabili i compagni,
e a me di strano fervore argomento,
quando alla scuola i versi recitavo;

tra fischi, cori, animaleschi lagni,
ancor mi vedo in quella bolgia, e sento
solo un’intima voce dirmi bravo.

Dalla raccolta “Autobiografia”, 1924


Inverno 

È notte, inverno rovinoso. 
Un poco sollevi le tendine, e guardi. 
Vibrano i tuoi capelli, selvaggi, 
la gioia ti dilata improvvisa l’occhio nero; 
che quello che hai veduto 
– era un’immagine della fine del mondo –  
ti conforta l'intimo cuore, lo fa caldo e pago. 
Un uomo si avventura per un lago 
di ghiaccio, sotto una lampada storta.

Da “Parole”, 1934


Neve

Neve che turbini in alto e avvolgi
le cose di un tacito manto.
Neve che cadi dall’alto e noi copri
coprici ancora, all’infinito: imbianca
la città con le case, con le chiese,
il porto con le navi,
le distese dei prati.....

Da “Parole”, 1934


Il golfo di Trieste da Barcola prima del temporale

Bibliography:

Gli spari di Sarajevo. L’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando mise in moto un processo atteso da tempo dagli apparati affaristici e militari. 
In «Il Piccolo», pp. 30-31
130 anni. La nostra storia, la vostra storia dal 1881 a oggi. A cura di Fabio Amodeo, febbraio 2012

Gli italiani dell’imperatore di Alessandro Marzo Magno su «Focus» n. 97, novembre 2014, pp. 46-51. 

  
 Related links:

Sul tram per Opicina

(Foto di Claudia Ciardi ©) 



12 marzo 2016

Marc Chagall - Anni russi 1907-1924






Lo scorso novembre il Santa Giulia di Brescia ha inaugurato un ciclo di grandi mostre dedicate a figure di rilievo dell’arte del Novecento. L’inizio non poteva essere più coinvolgente con una rassegna dedicata agli esordi di Marc Chagall, prima del suo definitivo trasferimento in Europa, a Parigi. Trentatré opere suddivise in diciassette quadri e sedici disegni, con due taccuini di schizzi facenti parte dell’archivio dell’amico poeta Blaise Cendrars, i cui contenuti sono stati oggetto di divulgazione presso il largo pubblico solo a partire dal 2012 e in questa occasione esposti per la prima volta in Italia, oltre alla serie di inchiostri di china realizzati dall’artista per le due favole yiddish di Der Nister.
Non si esagera a definire l’evento un gioiello grazie all’impeccabile curatela che ha contribuito a un’atmosfera unica, assai vicina all’intimità sconvolta e sognante dello shtetl, il villaggio ebraico poverissimo e abbandonato a se stesso nella provincia imperiale, fosse quella asburgica descritta da Joseph Roth, per citare il più noto dei suoi narratori, o sovietica, come in questo caso, essendo Lyozno presso Vitebsk, patria bielorussa di Chagall, parte del dominio zarista. 
Una lodevole iniziativa, dunque, che ha affiancato istituzioni culturali russe e italiane – la direttrice del Museo russo di Stato, Evgenija Petrova, la Fondazione Brescia Musei insieme al Comune e all’editrice Giunti Arte – responsabili di un allestimento estremamente poetico. La sede bresciana si è inoltre configurata come validissima cornice all’estro pittorico di Chagall. Qualcosa nella Via dei Musei, dalle rovine del foro romano fino alla chiesa di Ermengarda e all’ingresso al polo espositivo, ne fa una passeggiata di rara bellezza, perfettamente preparatoria al clima fiabesco che attendeva il visitatore all’interno delle sale.  
La mostra ha inteso valorizzare la peculiarità creativa dell’artista che iniziò quasi da autodidatta, forse perfino senza troppa convinzione, in un ambiente che offriva ben poco, e miseria in abbondanza. Questo percorso, in cui l’avvicinamento alla pittura avviene in punta di piedi, è stato valorizzato e illuminato dalle considerazioni autografe di Marc Chagall, che raccolse i propri pensieri in uno scritto fondamentale, La mia vita (Moja žizn’), iniziato tra il 1915-16 e terminato durante il soggiorno berlinese del ’23, prima tappa all’indomani dell’uscita definitiva dalla Russia. Meta e stabile dimora per il resto della sua vita sarebbe divenuta Parigi, la metropoli dell’arte già ampiamente conosciuta in un lungo soggiorno di ventenne, tra il 1911 e il 1914, quando insieme ad altri colleghi, molti russi come lui, scelse di fare la fame in quella Babele-dormitorio che era La Ruche.              
I passi scelti in accompagnamento dei quadri, rendono in modo calzante il periodo di sospensione fra la ricerca del proprio linguaggio poetico e la fuga definitiva dalle strettezze del villaggio natale. Tuttavia Chagall, e questo dà la misura della sua personalità e serve a comprendere da dove traesse la forza creativa, non arrivò mai a disprezzare le proprie origini; nei familiari, anzi, nelle loro occupazioni quotidiane, nei riti chassidici, seppe sempre scorgere la radice di una rara poesia che andava preservata e narrata a chi ne ignorasse l’esistenza.              
«Mi erano congeniali il gergo di strada e le modeste parole del vocabolario corrente. Ma una parola così fantastica, letteraria, una parola venuta quasi da un altro mondo, la parola “artista” sì, forse l’avevo udita, ma nella mia città non è mai stata pronunciata. Era così lontana da noi! Da solo non avrei mai osato pronunciarla».
C’è lo struggimento dell’uomo che aspira a lasciarsi alle spalle gli angusti confini in cui è nato ma anche un amore senza condizioni per il “suolo” che ha nutrito il suo immaginario, un debito rafforzato dall’incontro con Bella Rosenfeld, sua musa ispiratrice e moglie. 
«Mattina e sera lei portava nel mio atelier i dolci pasticcini fatti in casa, del pesce ai ferri, del latte bollito, varie stoffe decorative, perfino delle tavole che mi servivano da cavalletto. Io aprivo soltanto la finestra della stanza e l’aria azzurra, l’amore e i fiori entravano con lei. Tutta vestita di bianco o tutta in nero lei vola da molto tempo attraverso le mie tele, guidando la mia arte. Non finisco quadro o incisione senza chiedere il suo “sì” o “no”».
Chagall sposò Bella nel 1915, e per questo dovette vincere le resistenze della famiglia di lei, molto più benestante e poco rassicurata dalla professione del giovane. La coppia si trasferì a San Pietroburgo, dove nello stesso anno il pittore espose con successo insieme ai nomi di spicco dell’avanguardia russa, Michail Larionov, Natalija Gončarova, Kazimir Malevič, Liubov’ Popova, che formavano l’eclettica compagine di La coda dell’asino (Oslinij chovst), uno dei tanti movimenti che si alternarono in Russia nel frastagliato arcipelago delle arti fiorite durante il primo decennio del ventesimo secolo. E qui la mente corre a un’altra mostra organizzata a Torino, per certi versi complementare a questa, che ho avuto la fortuna di visitare nel gennaio di un anno fa, dedicata alla collezione Costakis, il greco appassionato di arte russa contemporanea, i cui capolavori sono stati esposti per la prima volta in Italia nelle prestigiose sale di Palazzo Chiablese. 
Il rapporto tra Chagall e le avanguardie sia russe che europee è piuttosto complesso. Si può dire con certezza che ne sia stato influenzato, dai maestri europei in cui si imbatté nel corso del primo viaggio a Parigi soprattutto, ma mantenne sempre un suo sguardo indipendente, che rendono la sua mano inconfondibile agli occhi di quanti avvicinano le sue creazioni. E forse è anche questo il segreto di un’affinità indiscussa tra Chagall e il pubblico di ogni latitudine, che ovunque incontra con entusiasmo la sua opera, lasciandosi catturare dalla magia del suo primitivismo e da una narrazione per archetipi che trascende epoche e luoghi.
Un grande plauso va quindi a coloro che hanno lavorato con impegno alla rassegna bresciana, per realizzare questo sogno lucido.


(Di Claudia Ciardi)

Catalogo:

Chagall. Anni russi 1907-1924
Museo di Santa Giulia, Brescia, 20 novembre 2015 - 15 febbraio 2016
Giunti



Related links:

Avanguardia russa - La collezione Costakis per la prima volta in Italia a Palazzo Chiablese - Torino


Boris Nossik - Anna Achmatova e Amedeo Modigliani, Odoya edizioni
   
  
La scuola carrarese dell'Ermitage - in collaborazione con l'Ermitage di San Pietroburgo - Carrara, 2015


Poeti russi oggi - rassegna di poesia russa contemporanea a cura di Annelisa Alleva, Libri Scheiwiller




L'avveniristico soffitto della metropolitana di Brescia

3 marzo 2016

Silenzi di guerra


Obice austriaco - Museo storico italiano della guerra, Rovereto


Il 28 febbraio si è conclusa la stagione di prosa 2015-2016 del teatro Verdi di Pisa con l’allestimento dello spettacolo Silenzi di guerra, nato da un’idea dell’attore Renato Raimo in collaborazione con lo scrittore Federico Guerri. Un appuntamento a cui sono stata felice di non mancare per il peso poetico di quanto portato in scena, lettura intimistica della guerra che irrompe nella sfera degli affetti, strappando violentemente le reclute alle loro consuetudini familiari. La prova del campo di battaglia si rivelerà annichilente in un duplice senso. Non solo perché in molti vi troveranno una morte precoce e ingiusta, ma anche perché chi scamperà alla tragedia non riuscirà mai veramente a tornare. Sarà un uomo diverso per aver affrontato «l’inenarrabile vita di trincea», come sottolinea il protagonista di questa pièce. La cesura tra il prima e il dopo non potrà essere sanata, troppo grande l’evento che ha separato i due momenti, così lontani da sembrare non potersi più risolvere nella medesima esistenza. Il fronte ha posto le condizioni di una intraducibilità di quello che gli uomini hanno sperimentato sulla propria pelle. Il mutismo dei reduci decreta dunque la fine del saper narrare; è ciò che Walter Benjamin descrive in alcune celebri pagine, indicando nella Grande Guerra l’evento che ha eroso la centralità dell’esperienza nell’orizzonte culturale umano: «La gente tornava ammutolita […] non più ricca, ma più povera di esperienze partecibabili […] Una generazione, che era andata a scuola col tram a cavalli, stava in piedi sotto il cielo in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato tranne le nuvole e, al centro, in un campo di forza di correnti distruttive e esplosioni, il fragile, minuscolo corpo umano». Da allora in avanti, svuotati e per un assurdo contrappasso schiacciati dall’eccesso di informazioni e dalla frenesia in cui la nostra quotidianità è andata riorganizzandosi, poco o nulla di quel che accade intorno a noi pare essere destinato a lasciare una traccia durevole. Estrema conseguenza di un disagio rimasto per lo più incompreso ma puntualmente analizzato dal filosofo tedesco.
Il lavoro di Renato Raimo nasce così dalla necessità di una riappropriazione emotiva, e quindi narrativa, della storia. Qui si tratta di un padre, Franco, professore di anatomia, e del figlio diciottenne Daniele, reclutato dal regio esercito italiano per combattere sull’Isonzo, frontiera lontana e quasi fantastica di cui i giovani soldati ignoravano persino fosse un fiume o una montagna. La cartolina precetto, un rettangolo giallo, all’apparenza un documento come un altro che a Franco ricorda le pagelle che il figlio adolescente poggiava sulla tavola apparecchiata, nasconde in realtà un’amara sentenza sulla loro consuetudine di vita. 
Vedovo da molti anni, Franco non riesce ad accettare la separazione forzata da Daniele, ragazzo fragile e indole solitaria. Vorrebbe proteggerlo questo padre, ma non può nulla contro le leggi. Troppi sono i presagi che lo tormentano fin dalla preparazione per la partenza tanto da decidere di umiliarsi, implorando all’ufficio di leva che lascino in pace il suo ragazzo, ma niente. La macchina da scrivere prosegue imperterrita a compilare cartoline, la guerra è guerra e non permette indugi. La voce dell’impiegato non arriva al pubblico, solo il ticchettio ossessivo della scrivente, unico volto di uno Stato che non fa mostra di sé, neppure nelle ore tragiche dell’entrata in guerra, quando si sa che una ferita profonda verrà scavata tra chi vi prende parte e coloro che in silenzio restano a casa ad aspettare; molto tempo servirà perché il dolore si attenui e il cuore rimargini. 
Neanche Daniele occupa mai la scena. Sebbene la sua figura muova l’intera narrazione, è una presenza completamente riflessa nell’angoscia e nel dolore del padre. Così pure la femminilità, interpretata da Patrizia Ghezzo, apparizione silenziosa affiorante in un angolo della scena, incarna l’attesa delle donne in ogni luogo e tempo, madri, mogli, figlie, creature diafane e immobili attraversate dalla sofferenza. Sopraffatto dallo sconforto, Franco sale sul treno che pochi giorni prima si è portato via il figlio, e anche lui arriva finalmente a vedere l’Isonzo, il piccolo fiume di smeraldo su cui si muore e dove un soldato sfida i proiettili del nemico per desiderio di scendere tra quelle acque. La mente corre a Ungaretti, al suo bagno rituale in un mattino assolato, tregua del corpo che quasi non ha più memoria di sé. Notti e giorni sul Carso sempre uguali, aspettando l’ordine di attacco. Sorrisi e disperazione di commilitoni, si passa il tempo prendendo lentamente confidenza con la nuova realtà, si scrive a casa. Nella Babele dei dialetti ci si aiuta alla meglio. «È la prima generazione di italiani nati tali e viene mandata a morire», così Franco mentre osserva la “meglio gioventù” che non ha ancora una lingua in cui esprimersi.  
In questo la paura delle parole, e dunque i silenzi, di disagio, preoccupazione, stanchezza, i silenzi pieni di tensione che incombono sull’assalto e quelli che sanno di perdita, frastornanti, inascoltabili,  dopo la battaglia.
Durante il dibattito seguito alla rappresentazione, Giovanni Morandi, inviato in numerosi scenari bellici contemporanei, dalle repubbliche balcaniche a Israele, dal Libano alla Libia, e fino al 2014 direttore del «Quotidiano Nazionale» di cui è tuttora editorialista, ha voluto soffermarsi sul dato che la guerra di Franco non sia quella della nazione, dello slancio patriottico ma sia interamente ripiegata in una dimensione domestica, di genitori e figli buttati nella mischia, ragazzi che si sono appena affacciati al mondo e di quel mondo sono subito costretti a toccare tutti gli orrori e in mezzo all’orrore essere pronti a sacrificarsi. Morandi ricorda anche i suoi stessi silenzi familiari, il nonno reduce invalido che combatté sul Pasubio e che in casa era assai restio a parlare della sua esperienza di soldato. In riferimento a un codice maschile secondo cui tra uomini non bisogna mettere a nudo le proprie fragilità. È la cifra che caratterizza lo stesso rapporto di Franco e Daniele, un’incomunicabilità che tuttavia non impedisce ai due di leggere nei rispettivi stati d’animo, né ostacola Franco nell’affrontare le supposte debolezze che tornano a scuoterlo quando è costretto a dire addio al figlio.     
In un dialogo ideale con la mostra di Palazzo Blu «I segni della guerra», recentemente curata dal professor Antonio Gibelli (marzo-luglio 2015), che ha consentito di esporre a Pisa un gran numero di cimeli provenienti, tra gli altri, dal museo della guerra di Rovereto, il lavoro di Raimo arricchisce il percorso dedicato alla memoria del primo conflitto mondiale, dalla prospettiva della reazione individuale e dell’approfondimento psicologico, punto di vista quanto mai prezioso per la comprensione degli eventi.     
Lo spettacolo prosegue risalendo l’Italia, andando ad abbracciare quelli che furono i luoghi dove la guerra si combatté senza risparmio di mezzi e di vite. Non resta quindi che augurare a Renato Raimo e alla sua compagnia, in particolare la fisarmonica di Marco Lo Russo con le sue magiche atmosfere, il miglior consenso di pubblico per questo racconto allestito con competenza e passione.

(Di Claudia Ciardi)




Silenzi di guerra

di Renato Raimo e Federico Guerri
regia: Marco Grigoletto
accompagnamento per fisarmonica: Marco Lo Russo


27 febbraio 2016

Tempo e memoria



Salvador Dalì - La persistenza della memoria, 1931 - Museum of Modern Art, New York


Attiene all’immaginario umano una dualità plasticamente rappresentata da una biforcazione di strade, che è pungolo di ricerca, alimentando il dubbio e spronando colui che lì è approdato a compiere delle scelte destinate al suo progresso – il che non significa successo ma semplicemente conoscenza. Al bivio si arriva dunque sotto la sferza della curiosità e del dubbio, e lo si supera con un gesto volitivo che però di quella essenza dubitante non smette di nutrirsi, neppure quando il ricordo del luogo che abbiamo attraversato e della spalle voltate a quel che sorgeva al suo fianco, si è fatto distante.
I due poli attorno a cui si orienta l’intera esistenza umana, amore e morte, danno prova di questa alternanza geografica. Secondo la religiosità greca di ascendenza orfica, di cui tanta parte è filtrata nella nostra cultura, una volta giunti nell’aldilà si incontreranno due fonti: la prima, quella dell’oblio, disseterà solo in apparenza, facendo dimenticare tutto e rinascere in un nuovo corpo chi le si avvicina. Più avanti invece è la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne, la memoria, che assicurerà un posto tra gli immortali. 
Nei poemi cavallereschi tutto questo si fissa in un’immagine diversa ma anche simile, la fonte dell’amore e del disamore, da cui un uomo e una donna che si desiderano finiscono sciaguratamente per bere all’unisono, così che la vicenda del loro tormento non può conoscere requie. L’amore, massima espressione di conoscenza, si consegna a una fuga irresoluta, celebra il trionfo dell’umana natura dubitante. Il principio è pure il medesimo, il disamore comprendendo l’oblio dei sensi. L’amore invece implicando un livello di comprensione dell’altro, necessariamente gettando le sue fondamenta nella favolosa terra dei ricordi, è il miglior sodale della memoria. 

Commemorare è il verbo deputato alla sintesi della memoria collettiva e, quindi, alla sua espressione nella ritualità pubblica. Etimologicamente derivante dal latino “cum memor” (memore, colui che ricorda insieme), la stessa successione sillabica, per chi come me ama la musicalità a scapito dell’ortodossia, potrebbe suggerire l’associazione con “moror” (attardarsi, fermarsi, dimorare). Indicando qualcosa che indugia, che si trattiene da qualche parte nella nostra percezione.  
Internet si colloca all’interno di una rivoluzione copernicana, fulcro sovvertitore dei tempi lunghi necessari alla conoscenza e a una mediazione-meditazione di quella conoscenza nel ricordo. Siamo assoggettati a una strana tirannide, il cui compito è distogliere la volontà da qualsiasi autentico atto creativo, compreso il ragionamento su noi stessi, che è per così dire la madre di tutte le muse. Senza immersione in questa sostanza primordiale, senza tornare alla fonte ci si rassegna a conoscere per sommi capi o per vie surrettizie. Molti richiami a essere qualcosa ma scarsa attitudine a immedesimarsi veramente in qualcosa, a viverlo come fossimo di quella sostanza.
Per dirla con Shelley «Quello che ci manca è la facoltà creativa di immaginare ciò che conosciamo; ci manca l’impulso generoso che attualizza quanto immaginiamo; quello che ci manca è la poesia della vita».
Se è giusto rivendicare l'aver acquisito una mole sterminata di notizie grazie al lavoro tecnico di tanti studiosi, altrettanto purtroppo è andato perso, stando alla manifestazione concreta di rinsaldare il collante delle nostre identità. E qui ci viene in aiuto la voce di un altro poeta: «Uno ha dentro di sé la propria origine come la propria morte […] è inutile cercare di essere diversi se non passando per la propria più assoluta identità». Senza questa acquisizione fondamentale, che Piero Bigongiari si impegna a disvelarci come oscillante e dolorosa, non saremo mai compresi in noi stessi ma neanche negli altri. Non è esagerato ammettere che la coesione sociale arretra anche a causa della labilità con cui ormai sono sentiti tali legami.

C’è un passo di Marc Augé che amo molto. Lo studioso francese si riferisce a Émile Durkheim: «Le cerimonie civili non gli apparivano differenti per natura dalle cerimonie propriamente religiose. Ma queste cerimonie sono sempre per Durkheim cerimonie del ricordo, feste della memoria collettiva».
Se prendiamo le commemorazioni della nostra Resistenza, vediamo che dal dopoguerra a oggi il numero dei partecipanti si è molto ridotto. E per ciò che riguarda il dibattito storico, la riflessione su questo capitolo non è minimamente paragonabile alla cultura di memoria sviluppata ad esempio in Germania dal secondo dopoguerra in avanti. Mentre notevole attenzione è dedicata alla riscoperta della letteratura della guerra aerea, come nell’opera di W.G. Sebald, dove acquistano rilievo le testimonianze dei sopravvissuti ai bombardamenti, alle memorie della Shoah (Ruth Klüger), al dibattito sulla Stasi e alla letteratura germanofona dell’immigrazione, la Resistenza italiana è stata finora destinataria di un interesse molto minore. All’inizio del 2009 si è istituita una commissione di storici tedesco-italiana col compito di occuparsi del comune passato di guerra. 
Un articolato intervento di Michael Braun, appoggiandosi alle tesi dello storico ed egittologo Jan Assmann, autore del celebre saggio Memoria culturale, e di Theodor W. Adorno, tocca proprio tali aspetti ed è un validissimo strumento per capire cosa ne è stato negli ultimi cinquant’anni della elaborazione memoriale tedesca, applicabile in senso lato ai popoli europei usciti dal secondo conflitto mondiale: «La trasformazione incisiva della memoria culturale appare soprattutto nel fatto che il concetto normativo e censorio del “superamento” e della “elaborazione del passato” (Theodor W. Adorno) fa posto a una riflessione critica e a una narrazione pluralistica della storia […]».
Eppure, nonostante il largo respiro di questa ricognizione tra i diversi strati di memorie nel Novecento, sotto i colpi di un presente che si impone per velocità e autarchia pare essersi allontanata da noi la consapevolezza del passato. Farebbe meno scalpore se oggetto di questo oblio fossero eventi lontani nel tempo – i tumulti del senato romano, le nebulose vicende imperiali, le lotte tra comuni e signorie, la guerra dei trent’anni. Conosciamo magari la sostanza di questi fatti ma non vi associamo nessun particolare sentimento. Sono cose su cui l’occhio del tempo si è impietosamente richiuso, consegnandole al gelo dell’abbandono. Certa letteratura che sviluppa in forma di romanzo alcune vicende del passato, riesce a imporsi al gusto di non  pochi appassionati. Ma siamo di fronte a prodotti di consumo, mezzi d’evasione che nulla hanno a che vedere con la ritualità della storia pensata come parte fondante del sé cui si riferiva Augé attraverso l’analisi di Durkheim. 

La “cultura di memoria”, dunque, contrapposta alla fatuità dei social network, simbolo e sintomo di una fruizione di quel che dovrebbe interessarci e raccontare di noi, confinata alla superficie degli eventi. Lo abbiamo ascoltato spesso dalle parole di Umberto Eco, parole tornate a interrogarci nei giorni della sua scomparsa che peraltro ha trovato in rete, com’è ovvio, molti suoi canali di diffusione.
Per invertire la tendenza, ammesso che lo si voglia, io credo sia necessario un grande lavoro di autoanalisi, magari accompagnato da semplici regole pratiche. A noi spetta evitare di stare connessi per buona parte della giornata e quindi farci trovare costantemente reperibili. Oppure temiamo che l'uscita dalla rete, sebbene solo attraverso una sospensione della nostra presenza, comporti una sorta di ostracismo culturale? 
Un episodio personale mi fornisce un ottimo spunto. Dopo circa sette anni, ho scelto di non aggiornare più facebook con la frequenza di prima. I motivi sono molteplici e vanno dalla noia, al fatto che col passare del tempo cambia anche il modo di rapportarsi a certi mezzi (sarebbe bene, almeno, cambiasse) fino al senso di insicurezza trasmesso dalla gestione del social (manca un vero e proprio centro di assistenza, ci sono casi di violazione delle identità registrate, virus di sistema ecc…). Mi riferisco a questa esperienza perché a livello antropologico e filosofico riveste secondo me un interesse di qualche rilievo. Alcuni dei miei contatti, destinatari in ogni caso di una minore assiduità rispetto a quella che di solito riserviamo alle cerchie più intime dei nostri conoscenti, per un certo periodo mi hanno inviato messaggi allarmati. La mia irreperibilità era forse il frutto di qualche dramma? Stavo bene o celavo dei misteriosi problemi? Insomma, chi stacca da facebook celebra a sua insaputa una specie di funerale di se stesso. L’identità virtuale gli si è ormai a tal punto appiccata addosso da dettar legge a quella reale.
È chiaro che la cosa fa sorridere ma spinge pure, una volta di più, a ragionare. Che stiamo facendo di noi «animali sociali» ora fatalmente sempre più virtuali?

Nel bellissimo saggio di Myriam Revault d’Allones, La crisi senza fine, si legge, tra numerose altre, un’affermazione illuminante: «Il tempo non si dinamizza più in una forza storica, non è più il motore di una storia da fare, di un compito politico da assolvere. Dopo il crollo della fede in un avvenire teleologicamente orientato al meglio, è divenuto un tempo senza promesse. Lo schema oggi predominante è quello di un futuro inimmaginabile e indeterminato. Questo nuovo modo di “essere nel tempo” tocca sia lo sguardo della società sul proprio avvenire collettivo votato all’incertezza, sia le rappresentazioni degli individui sull’orientamento (altrettanto incerto) della loro esistenza».
È, credo, questo svuotamento del tempo a spingere verso un’apparente ma anche sostanziale vacuità, si passi l’ossimoro, del fare e del pensarci.

(Di Claudia Ciardi)


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