Leggo
Anton Čechov da quando avevo vent’anni e potrei definirla una delle esperienze
più longeve nel mio frastagliato microcosmo di autori preferiti. A
differenza di altri, di cui ho via via scoperto i limiti, Čechov non mi ha mai
annoiata. Anzi, col passare del tempo, mi capita di gustarne in profondità
atmosfere e sfumature psicologiche precedentemente trascurate. Segno che l’uomo
sa far crescere frutti assai rigogliosi sulla pianta dell’arte letteraria. A mio giudizio è quindi implicito che chi voglia avvicinarsi al teatro, inteso sia come
materia di studio sia come fonte di scrittura, non possa prescindere
dall’incontro con la sua opera.
Steso
nel 1897 e approdato al Teatro di Mosca nel 1899, dopo il debutto in provincia,
Zio Vania è ritenuto il punto di
congiunzione nella drammaturgia del talentuoso ucraino-russo tra l’antecedente
del Liesci e la forma compiuta del Giardino dei ciliegi, culmine secondo i
più della sua vena creativa, di cui Vania sarebbe una sorta di prova generale.
Senza entrare nel merito, i quattro atti di queste “scene di vita di campagna”,
così recita il sottotitolo, corrispondono ad altrettante istantanee destinate a
infrangere i confini di genere (commedia, dramma, farsa) e a intagliare i
personaggi entro una dimensione analitica completamente inedita.
Le
frizioni tra borghesia di città, ossia la bella, giovane e sfaccendata Elena
sposata al vecchio professor Serebriakov da un lato, e i russi di campagna,
abituati a faticare per la conservazione della proprietà e, con questa, delle
loro radici dall’altro, vale a dire il buon Vania, la madre di lui che pure è
attratta dalla personalità colta e inquieta di Serebriakov, la semplice ma non
bella Sonia, figlia di primo letto del bisbetico professore e nipote di Vania, mettono
in scena non solo l’evidente contrapposizione di due mondi ma pure quel conflitto di mentalità - nel senso coniato da Marc Bloch - che avrebbe di lì a poco infiammato il teatro della storia.
In
tutto questo Vania e Astrov, il medico dall’affascinante personalità, uomo
colto, appassionato di pittura, animato da una coscienza ecologista che
precorre il secolo alle porte, funzionano come due inneschi che solo in
apparenza fanno deflagrare lo spazio degli affetti, attraversati da aspettative
diverse ma soprattutto pesanti delusioni. La promessa di cambiamento si sgonfia
in una paurosa statica mediocrità, dove tutto viene conservato e ciascuno
rientra nei ranghi dei propri impegni quotidiani. Dopo che le singole volontà
sembravano inclini a rovesciare e rimescolare gli equilibri che fino ad allora
le avevano inchiodate, il nuovo immobilismo è ancor più soffocante.
Elena
è palesemente stanca di un marito molto più vecchio di lei, lamentoso e privo
di spirito pratico; potrebbe abbandonarsi a una storia con Astrov, che è lì a
tentarla, la corteggia e arriva a un passo dall’espugnare la fortezza del suo
cuore. Ma l’esplosione d’ira di Vania, tanto più veemente in quanto per troppo
tempo repressa, la fa recedere dalle sue già di per sé debolissime intenzioni. Ciò
che domina la coppia Elena-Serebriakov, del resto, è proprio lo strano veleno dell’inazione
sparso su coloro che vi entrano in contatto. Vania, in tutta la sua
scompostezza, squarcia il velo sulle negatività di cui sono portatori, ed ecco
che ai due novelli campioni del lassismo borghese di città non resta che
battere in ritirata.
Astrov
perde la sua grande occasione di entrare nel letto di Elena e l’idea di una
possibile unione riparatoria con Sonia non lo sfiora neanche. Forse un attimo
solo, quando siede un’ultima volta nel salotto di famiglia del vecchio Vania,
fuori è ormai notte e si sentono appena i rumori sommessi della campagna,
mentre i suoi amici son lì accanto a lui, silenziosi, immersi nelle loro
letture. La quiete sembra nuovamente regnare sulla casa, ma gli animi sono in
tumulto, e quel che verrà a fatica ricomposto porterà sempre il marchio della
rottura consumata. Si potrebbe, dunque, definire il dramma dei sospesi, degli
atti non finiti, tra reticenze e ripensamenti. E in queste tenui sfilacciature
delle trama che vorrebbe prendere altre strade, ma subito viene riportata
indietro, s’insinuano stralci di pura poesia, come ad esempio quando Astrov
prende definitivamente congedo da Elena, dipingendole il suo idillio d’amore
tra natura e abbandono: «Presto o tardi finirà per forza con l’abbandonarsi ai sentimenti – è inevitabile. E meglio allora, piuttosto che a Charkov o chissà
dove a Kursk, che succeda qui, in seno alla natura… Se non altro è poetico,
perfino l’autunno è bello… Qui c’è il bosco, ci sono ville abbandonate che
sembran descritte da Turgheniev…».
O
ancora lo scambio sul filo del paradosso tra Vania, che ha appena tentato di
uccidere Serebriakov, e Astrov, che teme commetta un’altra sciocchezza. Il
dottore, in questa situazione russo fino alle midolla, non si fa contagiare dall’umana abiezione e dallo sconforto che rodono l’amico, e gli sbatte in
faccia, senza tentennamenti né commiserazione, il loro abbrutimento senza
uscita: «Ma noi… noi due una sola speranza abbiamo. La speranza che quando
dormiremo nelle tombe ci si presentino delle visioni, magari anche gradevoli».
In
questo inesorabile scivolamento di tutto e tutti verso la rassegnazione, Sonia
espia nella propria solitudine l’amore non ricambiato da Astrov, Elena rimanda
a chissà dove e quando di tradire il noioso professore, Vania chino sulla sua
scrivania torna a far di conto per amministrare il vecchio podere e salvare così il nome della famiglia. Ma è un ritorno all’ordine che non ha nulla di
rassicurante.
Čechov dà prova di una sfrenatezza tutta sua nel giocare con le distonie di questo falso
equilibrio che non esisteva all’inizio, in quanto se ne attribuiva la rovina
alla coppia di ospiti giunti dalla città, e quindi a maggior ragione non potrà
più esistere alla fine. Quel che l’autore si procura di servirci è un
compromesso, in cui l’insieme degli antefatti assume volutamente l’aspetto di
uno svarione, un capriccio da bambini destinato a sbollire. Ma lo scrittore lascia
la porta socchiusa in modo che nel sottile spiraglio che illumina la fine si consideri
come la bufera sia stata accesa da pulsioni, sopite solo in superficie, istinti
che non possono essere addomesticati né da norme né da coscienza o
autodisciplina, come il discorso in chiusura di Sonia vorrebbe invece far intendere. E per chi legge e vede rappresentata l’opera sulla scena questa
provocazione messa in campo da Čechov è ciò che scuote in profondità l’intera
architettura narrativa. Nessuna vera conquista dunque, nessuna pacificazione
autentica, nessuno spostamento nei destini dei protagonisti, piuttosto una
tregua precaria che somiglia a una pausa teatrale, ancor più angosciante perché
irrisolta, dettata dall’opportunità e non da un reale passaggio nel flusso
degli eventi di coloro che apparentemente si salvano restando uguali.
(Di Claudia Ciardi)
Edizione consigliata:
Anton Čechov, Zio Vania. Scene di vita di campagna in quattro atti, introduzione e traduzione di Luigi Lanari, Bur, 2014