28 novembre 2021

Anecdota botanica




Organismi ingegnosi dalle sorprendenti doti creative, in grado di sviluppare sistemi all’avanguardia per la loro conservazione e diffusione, vere e proprie creature pensanti, le piante sono gli esseri che più differiscono da noi ma dalle quali molti esempi potremmo trarre per dare finalmente spazio a modelli alternativi nella nostra società.
Un giorno un amico dopo avermi mostrato le figure del qi gong – una specie di danza in cui il respiro si armonizza completamente coi movimenti del corpo finché la propria energia interna e quella esterna fluiscono insieme – mi raccontò di aver avuto un’esperienza molto intensa. Una mattina presto, disponendosi a quel lungo esercizio di respirazione davanti alle montagne sentì di non appartenere più allo spazio in cui si trovava. Nel silenzio, man mano che completava i movimenti, aveva la percezione di essere trascinato via. Se si raggiunge un elevato grado di concentrazione, mi disse, si riesce a sentire cosa sta accadendo nel bosco in quel preciso momento. Questo racconto mi toccò subito moltissimo e non ne ho mai dubitato. Certo, immersi come siamo adesso in un’atmosfera tanto straniante che calpesta con spietato cinismo ogni pur minima concessione a un’idea di trascendenza, suona come qualcosa di inconcepibile. Tale episodio mi trasmise con straordinaria chiarezza quanto tutti i viventi siano legati in profondità. E vi ho riscontrato pure non poche assonanze con il ricordo di un evento culturale degli anni ’70, quando il libro La vita segreta delle piante di Peter Tompkins e Christopher Bird (edito in Italia da Il Saggiatore nel 2009) entrò nella classifica dei saggi più venduti stilata dal New Yorker. Il volume sosteneva l’idea che le piante fossero esseri senzienti, fini ascoltatrici di musica classica, artiste munite di una spiccata intelligenza tecnica (e torniamo pur sempre alla τέχνη, arte, in greco). Un misto di adattabilità, resistenza, lungimiranza “politica” che permette loro di volgere a proprio vantaggio situazioni complicate. E infine, anche un po’ sensitive. Il libro infatti rimarcava la caratteristica di percepire i pensieri di un essere umano con cui erano venute in contatto o che si era preso cura di loro perfino a centinaia di chilometri di distanza. Questo passaggio soprattutto mi riportava al concetto di unisono che l’esperienza appena descritta aveva con così tanta forza riversato in me. Se il fatto che il libro sia diventato un bestseller nel giro di qualche settimana si spiega come fenomeno di costume ascrivibile al diffondersi delle pratiche new age nella società americana, è pur vero che qualcosa di quell’impianto ha sfidato il tempo superando le aspre critiche degli scienziati di allora. Oltre al merito di aver guadagnato proseliti alla causa della botanica, nell’epoca delle macchine considerata non di rado uno studio da eccentrici, non è esagerato riscontrare nell’esposizione dei due scrittori il seme – quale metafora più appropriata! – di una disciplina che molti anni più tardi si è proposta di studiare le capacità sensibili delle piante, nota col nome di neurobiologia delle piante. Uno dei suoi più illuminati e illuminanti divulgatori è Stefano Mancuso, fisiologo vegetale dell’Università di Firenze, autore di libri capaci di avvicinare e coinvolgere lettori non specialisti, che esorto vivamente a leggere.
In un ipotetico parallelo tra società delle piante e società umana, le piante battono l’uomo stracciando quasi l’avversario. L’essere umano ha infatti la mania di accentrare, di creare organizzazioni verticistiche fino a perire sotto il peso dell’inutilità delle proprie strutture. Ciò vale per il regno animale in genere, con la differenza che l’uomo dà vita a sistemi complessi perché più complessa è la sua intelligenza. Solo che in natura l’intelligenza non è necessariamente un vantaggio. Gli esempi attraverso cui gli uomini in preda a un’ipertrofica volontà di dominare finiscono puntualmente per essere intossicati si sprecano. Un’altra mania tutta umana è quella di ammantarsi di una presunta superiorità di specie in base alla quale si potrebbero modificare gli equilibri di natura a proprio piacimento e senza conseguenze. Anche qui gli esempi di esperimenti finiti male non si contano. Vediamo brevemente cosa è successo quando gli Olandesi decisero che la pianta dei chiodi di garofano era inutile. Arrivati alle Isole Molucche, sua terra d’origine, distrussero tutti gli alberi di Eugenia per far posto ad altre colture e per liberare spazio da destinare ad altre attività. Come s’intuisce dal nome, questi vegetali sono ricchi di eugenolo che si estrae anche dagli oli essenziali di cannella, noce moscata, basilico, alloro e anice stellato giapponese; si tratta di un antibatterico potente, con proprietà antispasmodiche e anestetiche. Una volta eradicate tutte, sulle isole si abbatterono continue epidemie che le resero invivibili. La natura ha fatto capire ai coloni chi comandasse veramente.
Nel suo libro La nazione delle piante Stefano Mancuso descrive moltissime situazioni che mettono a nudo l’inadeguatezza umana. Illuminante il capitolo sulla crescita incontrollata degli apparati burocratici, che continuano a lievitare anche in assenza di reali opportunità di lavoro, fino all’autodistruzione, specchio dell’orizzonte gerarchico entro cui l’uomo si muove. Ecco cosa dice l’autore al riguardo: «Ogni organizzazione gerarchica, infatti, evolve una sua burocrazia, ossia un gruppo di persone la cui funzione è di trasformare in consuetudine il meccanismo di trasmissione dei comandi attraverso i diversi livelli della gerarchia. La trasmissione da un livello all’altro della catena gerarchica, oltre che essere inevitabilmente soggetta ad errori, richiede del tempo, eliminando così la velocità di azione, ossia l’unico vero vantaggio ascrivibile ad una organizzazione centralizzata». (articolo 3, pagina 35)
Il sistema centralistico e verticistico dei modi in cui l’essere umano tende ad amministrare ogni cosa, gli deriva da come amministra se stesso, un derivato biologico si direbbe: il cervello è il nostro organo centrale, è lui il regista di tutto, quello che ci permette di risolvere i problemi ma anche il grande responsabile dei nostri molti dissidi. Le piante invece non hanno nessun organo centrale, i loro sensi hanno uguale potere contrattuale distribuiti come sono su tutto il corpo. Il loro è un modello di società diffusa, in cui i centri di potere sono più di uno, dunque un cosmo policentrico che vive di decisioni collegiali, e se una parte è in pericolo o riporta un danno, ci sarà un doppio – supponiamo un duplicato del cuore, del cervello e della vista – che le permetterà di recuperare l’infortunio.
Anche in questo caso, dopo aver letto il libro di Mancuso e diversi articoli d’intonazione simile, mi è accaduto un episodio davvero bizzarro cui non avrei dato peso senza essermi documentata a queste fonti. La mia amarillys, regalo di unamica greca innamorata di questa pianta fin dalla gioventù, aveva avuto uno sviluppo velocissimo – cosa questa che mi era stata predetta qualora si fosse ambientata bene. Ero molto felice, significava dunque che le ero piaciuta, ma allo stesso tempo mi preoccupava che potesse soffrire per il peso eccessivo. Purtroppo non pensai a metterle dei sostegni e così una mattina ho trovato uno degli steli dove già si affacciava la prima fioritura, accasciato sullo stendino. Non aiutata da me, aveva provveduto da sola ad atterrare sul morbido. Dalla sua posizione era l’unico punto raggiungibile per non rischiare che lo stelo si spezzasse. Da come è andata, si potrebbe dire che l’amarillys abbia “visto” lo spazio, che abbia percepito cosa ci fosse intorno a lei, calandosi dove potesse stare al sicuro.
Siamo davvero di fronte a creature prodigiose, animate da gusto estetico e uno studio invidiabile della tecnica. Delle perfette menti artistiche rinascimentali. E a proposito di arte… Da tempo ci si interrogava su come, finite le glaciazioni, le foreste si fossero rapidamente diffuse in ogni parte del mondo, isole comprese. Fu un’istallazione a Central Park di Christo e della moglie Jeanne-Claude, i maggiori rappresentanti della Land Art, a ispirare la teoria di Henry Horn, biologo di Princeton. Nel lunghissimo porticato costituito da 7500 passaggi – una perfetta galleria del vento – lo studioso si accorse che alcuni semi alati erano in grado letteralmente di intercettare le correnti d’aria coprendo distanze all’apparenza inimmaginabili. Si trattava soprattutto di quelli dell’acero e del frassino, architetture eccezionali, veri oggetti di design, sbalorditivi congegni leonardeschi.
In conclusione, avvicinare la vita delle piante significa confrontarsi con tantissimi aspetti del nostro stesso universo intellettivo e creativo, scoprendo valori diversi e punti di vista che, se integrati o adottati per alcune forme di organizzazione, potrebbero rivelarsi molto più funzionali e per così dire moderni di quelli a cui ci vincolano le nostre consuetudini sociali.

 
(Di Claudia Ciardi)




*In copertina: Leonardo da Vinci, Annunciazione, 1472-1475 circa
dettaglio:
lalbero impossibile


*Per la rubrica
«Arboreto salvatico»


Riferimenti:

Michael Pollan, L'intelligenza delle piante, «The New Yorker», pubblicato in versione italiana su «Internazionale» n. 1042, 12-20 marzo 2014

Stefano Mancuso, La nazione delle piante, Laterza, 2019

Vittorio Caprioglio, Gli alberi ci insegnano ad avere radici e a volare,
«Salute naturale», numero 269, settembre 2021

16 novembre 2021

Altissimi colori

 

Il nome di Giovanni Testori mi è venuto incontro qualche anno fa, durante uno dei miei cammini milanesi. Una notice sul suo archivio e il bando di un premio letterario mi incuriosirono. Ne avvicinai così la poliedrica personalità sul versante dei suoi scritti ma del Testori pittore, amante profondo della montagna, calamitato dai paesaggi della Valle d’Aosta, dalla necessità di alternare la vita in città a lunghi soggiorni accanto alle Alpi, ipnotizzato dalle visioni del Monte Rosa, nessuna traccia allora.
Il Testori montanaro mi si è singolarmente ripresentato in tempi più recenti, dopo aver io stessa conosciuto nella mia vita il raccoglimento dell’altitudine e la gratificazione del disegnare e dipingere simili paesaggi. Dunque, il percorso creativo di questo ingegno eclettico, innovatore di alfabeti letterari e artistici, per la seconda volta ha voluto farmi visita, e se un primo incontro può essere una fatalità senza troppe conseguenze, un secondo che inserisca aspetti tanto vicini al proprio carattere non lascia indifferenti.
Così desidero tornare sui temi di una bella mostra che si è tenuta negli spazi del Castello Gamba (Châtillon, Valle d’Aosta) omaggio a Testori disegnatore di montagne ma anche agli artisti che in questo soggetto si sono cimentati, intrattenendo con lui durevoli rapporti di scambio. Il fascino di tale occasione consiste nell’aver riportato alla luce documenti inediti della presenza testoriana in montagna, evidenziando dei nodi importanti all’interno della sua attività letteraria che non si comprenderebbero senza l’accostamento ai luoghi dei suoi ritiri e ai momenti di ispirazione che questi hanno suscitato.
Le sue raffinate pagine di critico d’arte nascono dalla partecipazione simpatetica con la poesia delle cime che fu per lui fonte di letture acute dell’opera di altri amici, suoi pari nella contemplazione estatica di tale spettacolo naturale, e di altra poesia, com’è chiaro nel suo ciclo in versi dei Trionfi, omaggio fin dal titolo alla grande tradizione dell’italiano volgare di ascendenza petrarchesca e al sublime dei temi prescelti; metamorfosi dei cieli, trapassi di colore, cadute di nubi sui crinali. Del resto, da una lettera delle Familiares, sappiamo che Francesco Petrarca, quando si trovava a Carpentras, salì al Mont Ventoux (Monte Ventoso). Era l’aprile del 1336. In questi nuovi trionfi va letta dunque una doppia celebrazione, ave al crearsi di una lingua e alle cadenze cromatiche di un immaginario alpino.
Significativo al riguardo anche l’esordio di Testori che a soli diciassette anni pubblicò un articolo su un disegno preparatorio inedito di Giovanni Segantini legato al capolavoro Alpe di maggio (1891). Molto più di un intento a esplorare le sacre sponde dell’arte ottocentesca e, in seguito, novecentesca scaturita dalla vicinanza dei sensi alla natura.
Ma quali sono infine gli altissimi colori di Giovanni Testori?  
Innanzitutto quelli di Gustave Courbet che lui ci descrive come un creatore assoluto della materia, padre di tutta la pittura moderna, capace di far scaturire un «rombo ctonico infinito, d’infinita pressione che non è più dell’uomo ma dell’intera natura e dell’intero universo» (Testori, 1977). E in effetti a soffermarsi su certe visioni (non vedute!) di Courbet volte ai paesaggi di montagna (pensiamo a Impressioni di neve, 1868; Paesaggio del Giura, 1868; Il ghiacciaio di Zermatt, 1873; Paesaggio alpino, 1873-1877; Il castello di Chillon, 1873) si percepisce tutto il vigore di una personalità artistica rocciosa, scardinante, chiamata ad aprire vie inesplorate.
Quest’indole sanguigna, indisponibile al compromesso, che pagò altissimo il prezzo di aver voltato le spalle alle gerarchie di potere gettandosi nell’avventura della Comune, ha contribuito in modo significativo a innovare le formule della rappresentazione pittorica.
Le parole scritte da Courbet sui giorni folli di Parigi costituiscono un’eco potentissima della sua personalità: «Eccomi, per volontà del popolo di Parigi, dentro fino al collo negli affari politici. Presidente della Federazione degli artisti, membro della Comune, delegato al municipio, delegato all’Istruzione pubblica: quattro incarichi tra i più importanti di Parigi. Mi alzo, faccio colazione, sto in seduta e la presiedo dodici ore al giorno. Comincio ad avere la testa come una mela cotta. Eppure sono incantato, malgrado questo arrovellarmi il cervello per capire degli affari ai quali non ero abituato. Parigi è un vero paradiso; niente polizia, niente sciocchezze, nessuna esazione di sorta, niente litigi. Parigi va avanti da sola, come su delle rotelle. Bisognerebbe poter rimanere sempre così. In una parola, si sta d’incanto: tutti i poteri dello Stato si sono costituiti in federazione e non hanno dipendenze. Nei momenti di riposo, combattiamo i saligots di Versailles. Ci andiamo a turno. Essi potrebbero combattere per dieci anni come fanno, senza poter entrare da noi, e quando poi li lasceremo entrare sarà la loro tomba» (Lettera ai genitori, 30 aprile 1871).
Si comprende come cotale temperamento, per certi versi simile, anche fisicamente, a Segantini, non potesse essere ignorato da uno come Testori che nell’arte cercava momenti di deflagrazione, di vita piena pienamente vissuta, stracciata, dilatata, in cui cogliere «il seme e il senso dell’esistenza» (Lettera a Varlin, 18 giugno 1972). Ed è così anche per tutte le altre passioni e amicizie coltivate in nome del segno e del colore.
Ogni sodalizio è stato per il letterato e critico milanese motivo di stimolo per la propria scrittura – si direbbe un confronto con l’arte per necessità letteraria – un’osmosi che ha dato sostanza alle sue idee, che ha plasmato il suo punto di vista di studioso e che lo ha quindi portato sul sentiero del disegno e della pittura con opere proprie. Questo il dono della frequentazione di Renato Guttuso, Paolo Vallorz e Varlin, autore di metafisiche nevicate notturne che schiudono tinte umorali giapponesi. Questa la forza sprigionata dalla conoscenza di Bernd Zimmer, il capostipite dei cosiddetti “Nuovi selvaggi”, artisti in fuga da Berlino, pervasi dal rifiuto della società industriale alla ricerca di un’esistenza in natura, retaggio di quel che animò le comunità ottocentesche, da Barbizon ai Nabis e Worpswede.  
E questa l’essenza del rapporto con Pepi Merisio, unica apertura concessa da Testori alla fotografia, proprio nella persona del grande ritrattista bergamasco, di cui conservava fra i suoi libri il volume della rivista zurighese «Du» sugli scatti da lui dedicati alla processione mariana di Oropa. Ognuno di questi sguardi ha nutrito lo sguardo di Giovanni Testori e scagliato le sue parole nell’alto di impensabili punti di osservazione.
Soffermandosi sulla compiuta bellezza di certe forme presenti in natura si comprende quanto l’arte sia un processo per l’appunto naturale, necessario, irrelato alla vita cui in milioni di anni l’evoluzione non ha mai pensato di abdicare.
L’essenza creativa di Testori trae la sua originalità da una devozione profonda verso questa storia spirituale.


(Di Claudia Ciardi)


* Incipit dell'articolo: Bernd Zimmer, Montagne, 1984



Catalogo: Altissimi colori. La montagna dipinta. Giovanni Testori e i suoi artisti, da Courbet a Guttuso, Castello Gamba, in collaborazione con Casa Testori, 2019.
Testi di Davide Dall
Ombra e Giuseppe Frangi.













Pepi Merisio fotografa la processione di Oropa, 1965



Disegni con grafite di Giovanni Testori, Gressoney, 1971

8 novembre 2021

Liturgia dell'agrifoglio

 

Per la rubrica «Arboreto salvatico»

L’agrifoglio, nome scientifico ilex aquifolium, appartiene alla famiglia delle aquifoliaceae. È comunemente conosciuto anche con i nomi di pungitopo maggiore o alloro spinoso e si tratta di un arbusto spontaneo, con foglie di color verde scuro che possono presentare delle striature dal bianco al giallo. I suoi frutti sono delle bacche color rosso vivo, invece i fiori sono molto piccoli riuniti in mazzetti di color bianco o rosa chiaro.
Sempreverde, originario dell’Europa centro-occidentale, attecchisce fino a 2000 metri e in condizioni ambientali favorevoli assume portamento arboreo. La pianta giovane presenta foglie spinose, pungenti, aspetti destinati negli anni a modificarsi tanto che nella parte superiore dell’arbusto le foglie diventano di forma ovoidale, meno rigide. Un vero e proprio “sviluppo caratteriale”.

Ha proprietà antispasmodiche, febbrifughe e leggermente astringenti. Per lenire la tosse basta far bollire dieci grammi di foglie essiccate in mezzo litro d’acqua, per cinque minuti; si filtri e si bevano due tazze al giorno del decotto così ottenuto.

Nel linguaggio dei fiori e delle piante l’agrifoglio simboleggia l’eternità, l’aggressività, la  forza e la resistenza. Considerata da sempre una pianta magica, i rami in particolare venivano regalati dai romani ai novelli sposi come segno di buon augurio e gesto di benedizione per la nascente unione. Già Plinio il Vecchio consigliava di piantare l’agrifoglio vicino all’ingresso di casa per proteggere l’abitazione dai demoni. Nel mondo antico si riteneva infatti che le foglie pungenti potessero allontanare gli spiriti maligni, credenza che durerà fino al medioevo quando ancora si additava lagrifoglio come talismano contro i mali. Dal momento in cui nel passato la vita domestica si svolgeva principalmente nelle cucine, intorno al camino, si pensava che questo spazio fosse la porta di entrata e di uscita degli spiriti degli antenati. Anche per tale motivo gli architravi dei camini venivano ornati con ramoscelli di agrifoglio, mentre cappe e canne fumarie erano pulite con speciali scope “magiche” formate dalle fronde della pianta. I romani associavano l’agrifoglio a Saturno dio della rigenerazione, le cui feste, i Saturnalia, coincidevano con le celebrazioni solstiziali invernali. Dal 17 al 23 dicembre infatti si rigenerava il tempo sacro. Inoltre, in epoca imperiale a Roma si era diffuso un culto di origine orientale che celebrava il Sol Invictus, il sole mai vinto: il solstizio solare cade in una stagione di morte apparente, in cui la natura riposa e attende, ma reca in sé l’auspicio della rinascita. Dopo i cosiddetti giorni di stasi (si parla infatti di solstizio, o sosta) ecco che il sole riprende la sua risalita, raggiungendo il picco massimo intorno al 21 giugno, data che segna il solstizio d’estate. Nelle società arcaiche, la cui sopravvivenza era tanto legata ai ritmi stagionali, i cicli solari erano osservati con la massima attenzione. In inverno la produzione agricola era ferma, per la sussistenza era necessario fare affidamento alle scorte accantonate durante la bella stagione, sperando in una pronta rinascita. Nasce da qui anche la tradizione del ceppo di Natale. Nel tempo di vigilia ci si recava nei boschi in cerca di un tronco robusto, possibilmente appartenente a un sempreverde, e lo si portava nelle proprie case con molte cerimonie. L’accensione del ceppo (quindi ancora un rito del fuoco e della luce) avveniva la sera prima di Natale, mentre il ceppo continuava ad ardere e a consumarsi lentamente nei successivi dodici giorni, dal 25 dicembre al 6 gennaio. Un periodo che rappresentava un piccolo anno, dove ogni giorno corrispondeva a un mese, e il cui simbolo è una ruota, emblema appunto del disco solare. Il ceppo come archetipo, elemento magico e fiabesco nel quale confluiscono le forze cicliche dell’anno, le energie vitali della natura, affiora in tanti racconti e lo ritroviamo anche nel Pinocchio di Collodi, materia inanimata-animata da cui scaturisce un prodigioso burattino vivente.

In inverno il mondo vegetale è spoglio, il paesaggio appare desolato, dai colori spenti. Ma è proprio su questo sfondo che risaltano le piante sempreverdi. Perciò sono proprio simili piante gli emblemi dell’inverno: l’edera, le conifere, il vischio e l’agrifoglio. Con le sue foglie lucide e coriacee, di colore verde brillante, e le bacche rosse l’agrifoglio è forse la pianta che più si distingue nel contesto di un paesaggio invernale. Fiorisce in tarda primavera, con piccole infiorescenze bianche, e fruttifica in inverno. Nella lingua inglese è noto come holly (francese houx, tedesco Hülse) che alcuni vedrebbero connesso al termine holy, che significa “sacro”. Tuttavia, sembrerebbe più accettabile l’origine dalla stessa radice linguistica (in inglese hight, alto, acuto) che ha dato in latino la parola culmen (punta).

Tra i Druidi, sacerdoti dei Celti, era diffusa la convinzione che l’agrifoglio avesse il potere di proteggere l’uomo dai disagi causati dalle fredde notti invernali e che si riuscisse ad addomesticare qualsiasi animale selvatico toccandolo con un grosso ramo di agrifoglio.
Quando nel 1492 Cristoforo Colombo approdò in America anche nel nuovo continente trovò delle piante di agrifoglio, scoprendo che pure per i nativi molto preziose. Ne usavano le foglie per infondere coraggio durante le battaglie e come in Europa le piantavano nei pressi dei villaggi e delle loro abitazioni per difendersi dagli spiriti maligni. Ma la scoperta più sorprendente fu l’utilizzo che queste popolazioni facevano di foglie e alcune bacche per preparare un infuso che aveva il potere di dar loro forza, conosciuto ancora oggi come matè.
Penetrata anche nella tradizione letteraria, la lode dell’agrifoglio è alla base di alcuni canti festivi, intonati durante la ricorrenza natalizia soprattutto nei paesi di cultura anglosassone. Sono le versioni moderne tratte dall’antico
Contrasto dell’agrifoglio e dell’edera (The Contest of the Holly and the Ivy), in cui le due piante sono simboli di una contesa tra donne e uomini. In alcune zone dell’Irlanda sopravvive l’usanza di questo contrasto: a Natale si organizza una gara canora in cui le donne cantano i loro pregi e sminuiscono gli uomini, cui gli uomini rispondono coi loro pregi, canzonando le donne. La tenzone si risolve nel più pacifico dei modi, con l’augurale bacio sotto il vischio, altra pianta solstiziale cui si è precedentemente accennato. Un’antica versione del canto contiene questo ritornello:

Oh, the raising of the sun

and the running of the deer

the shining of the winter stars

as the longer days draw near

 

Il sorgere del sole

e la corsa del cervo,

il brillare delle stelle in inverno

mentre le giornate più lunghe stanno per giungere.

Qui si avverte il sostrato del rituale che segna il passaggio nell’inverno propiziando anche l’avvio del nuovo ciclo solare, da cui la tradizione prende origine.
La simbologia cristiana collega l’agrifoglio alla natività di Cristo. La leggenda narra di un pastorello che a Betlemme portò in dono al bambino appena nato una corona di rami di alloro. Vergognandosi, però, del suo regalo così povero si mise a piangere e Gesù, toccando il serto di alloro, la trasformò in un meravigliosa corona di agrifoglio, mutando le lacrime in splendide bacche rosse. La promessa del ritorno della luce nel mondo si associa al nuovo nato sotto la stella di Natale. Inoltre, l’umiltà dell’agrifoglio saluta il figlio di Dio nato tra i più umili, perché il divino portatore di riscatto nasce nella semplicità e di quella semplicità si adorna, per vincere la tracotanza dei forti. Più il potere diventa superbo, più il Dio, la scintilla generatrice del rovesciamento, si fa piccola, un bambino in una mangiatoia, vegliato da animali e pastori, festeggiato con doni frugali ma di grande valenza simbolica.
Pianta liturgica per eccellenza, l’agrifoglio attraversa dunque secoli e religioni, mettendo il sigillo su uno dei cicli di natura più potenti e misteriosi, al centro dei principali rituali coltivati da civiltà fra loro differenti e lontane.

(Di Claudia Ciardi)




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