28 luglio 2016

Thomas Stearns Eliot «Non c'è neppure solitudine fra i monti»




Si vuole qui commentare brevemente la chiusa del The Waste Land, oscillante tra allucinazione colta, miraggio onirico e profetismo nietzschiano, del quale si coglie un riflesso nel titolo, Ciò che disse il tuono, ma che nei fatti risulta subito disinnescato da un’attitudine alla miniatura ironica e scomposta, in linea col resto del poema. Riconosciuto all’unanimità come pietra angolare della poesia novecentesca, che con questo lavoro di Eliot si allarga a nuovi orizzonti sul piano tecnico e dei suoi principi ispiratori, in riferimento alla mia esperienza personale posso dire di averlo letto una dozzina di volte in italiano e altrettante in inglese. E di non esserne ancora sazia, direi anzi per nulla. Il fotomontaggio per frammenti che Eliot ha concepito sfugge e allo stesso tempo attrae in virtù della sua assoluta compiutezza. Le intersezioni letterarie, il loro peso immaginifico, ma ancor più la disinvoltura con cui vengono fatte cadere nel grembo dell’opera, le assicurano il costante ritorno di chi legge.
Lode del frammento, della rovina, dell’abbandono, di ciò che non si riesce compiutamente a raccontare di sé, come lautore non manca di ribadire in una delle strofe finali che introducono non a caso l’immagine dantesca della prigione di Ugolino. È chiara, soprattutto, l’amarezza per il poeta che non sa trasmettere agli altri il momento della resa (a moment’s surrender), quando spiritualmente diviene unisono col mondo raggiungendo quelle altezze interiori che l’ordinarietà delle cose disperde: «La terribile audacia d’un momento d’abbandono/ che una vita di prudenza non potrà mai revocare». Disfatta e attesa di rigenerazione in un aprile “non crudele”, questi i due centri radiali che tengono a battesimo l’intero ragionamento poetico. 
Tali tematiche si prestano all’entrata in scena di quelle ombre rituali ed escatologiche che si addensano attorno a buona parte della lirica anglosassone del primo Novecento. Lo smembramento di Osiride-Dioniso, metafora dell’atomizzazione della storia dopo la prima guerra mondiale, la morte di Cristo, associato a Tammuz e alle altre figure divine della fertilità, che raccoglie su di sé l’idea di una palingenesi, cui spesso si accompagna l’alternarsi delle stagioni imperniate sulla primavera, come metafora di rinascita. Anche qui infatti l’origine è aprile, sebbene di un tempo sovvertito si tratti, doloroso snodo di memoria e desiderio dove tutto si rimescola. A ciò vanno aggiunte l’allegoria dell’ascesa al monte e la sacralità che circonfonde il paesaggio di montagna, così come il viaggiatore che gli si avvicina. Nel caso del passo di Eliot, tutto risulta amplificato dall’accumulo di altri indizi pertinenti con l’immaginario sacro orientale: il Gange, il fiume della vita e della morte, asse dell’induismo, il riferimento esplicito all’Himavant, una delle cime dell’Himalaya che presiede alla manifestazione del tuono, e le citazioni dalle Upanishad, che Eliot era in grado di padroneggiare avendo studiato sanscrito ad Harvard nel 1911-’13. Una propensione all’orientalismo che attraversa la cultura europea dalla fine del Settecento, continuando a ramificarsi nelle più recenti espressioni della creatività letteraria. Pensiamo ad esempio al soggiorno di W. B. Yeats a Palma di Majorca in compagnia di uno Swami indiano, Shri Purohit, al fine di tradurre insieme le maggiori Upanishad.
Si consideri la frequenza con la quale simili riferimenti affiorano tra le pagine dei Pisan Cantos di Ezra Pound, la cui elaborazione risale al termine della seconda guerra mondiale ma che evidentemente sviluppano motivi già incardinati nel ciclo dei Cantos inaugurato nel 1919. Uno su tutti, la sovrapposizione tra il Taishan, il complesso montuoso venerato in Cina, e i Monti Pisani che fanno da sfondo alla prigionia del poeta. Allegoria, quella della salita al monte, che nell’immaginario poundiano si salda sull’essenza femminile in quanto mistica portatrice di un principio di creazione: «To be gentildonna in a lost town in the mountains» (Canto 78).
Sui nomi di Eliot, Pound, Yeats confluiscono dunque interessi che attengono al medesimo sostrato culturale, dagli spunti mitologici all’esoterismo, dal modo di dialogare con l’antico e in generale con le lingue all’insegna del pastiche fino al gioco onomatopeico. Letterati che strinsero tra loro rapporti di amicizia e che forse, proprio per questo, si ritrovarono anche nella trasposizione di una memoria autobiografica, oggetto di scavo simbolico e depositaria di una sintassi parallela a quella del mito.
Le opere dove più sono vivi i contatti cui si accennava originano peraltro nel medesimo arco di anni. Il The Waste Land vide la luce nel ’22, ultimo in ordine di tempo. Dell’inizio dei Cantos si è già detto; li precedette di poco la raccolta I cigni selvatici a Coole di Yeats (’17). Costruiti attorno alla sagoma della vecchia torre normanna di Ballylee, sua amata residenza raggiungibile a piedi da Coole House, dimora dell’amica e protettrice Lady Gregory, i versi di Yeats nella loro soffusa rappresentazione di un cosmo primitivo dal quale dipende l’alchimia spirituale che sorregge l’intera architettura poetica, esprimono probabilmente una delle più profonde consonanze con il poema di Eliot. Quell’accenno à la tour abolie, la torre infranta, su cui si chiude La terra desolata appare quasi un tributo iniziatico alle simbologie del grande poeta irlandese. 

Nei tarocchi la carta della torre, emblema della ragione, ci mostra un fulmine che si abbatte sulla sommità dell’edificio. Monito a non salire troppo in alto, guidati dalla superbia – richiamo al meden agan greco – ma di nuovo pure aspirazione al cambiamento, alla conquista della libertà. La folgore distrugge le strutture del pensiero e in tal senso l’autore guarda con una specie di accondiscendenza al capitolare del proprio stesso lavoro. Il suo sforzo di traduzione imperfetta e incompleta dell’umano sentire, del travaglio di intelligenza e cultura che è alla base della civiltà, trova rifugio e autentica comprensione in una pace che travalica l’esercizio raziocinante.

(Di Claudia Ciardi)  


Ciò che disse il tuono
(Parte V – The Waste Land)

Dopo la luce rossa delle torce su volti sudati
dopo il silenzio gelido nei giardini
dopo langoscia in luoghi petrosi
le grida e i pianti
la prigione e il palazzo e il suono riecheggiato
del tuono a primavera su monti lontani
colui che era vivo ora è morto
noi che eravamo vivi ora stiamo morendo
con un po di pazienza

Qui non cè acqua ma soltanto roccia
roccia e non acqua e la strada di sabbia
la strada che serpeggia lassù fra le montagne
che sono montagne di roccia senzacqua
se qui vi fosse acqua ci fermeremmo a bere
fra la roccia non si può né fermarsi né pensare
il sudore è asciutto e i piedi nella sabbia
vi fosse almeno acqua fra la roccia
bocca morta di montagna dai denti cariati che non può sputare
non si può stare in piedi qui non ci si può sdraiare né sedere
non cè neppure silenzio fra i monti
ma secco sterile tuono senza pioggia
non cè neppure solitudine fra i monti
ma volti rossi arcigni che ringhiano e sogghignano
da porte di case di fango screpolato

Se vi fosse acqua
e niente roccia
se vi fosse roccia
e anche acqua
e acqua
una sorgente
una pozza fra la roccia
se soltanto vi fosse suono dacqua
non la cicala
e lerba secca che canta
ma suono dacqua sopra una roccia
dove il tordo eremita canta in mezzo ai pini
drip drop drip drop drop drop drop
ma non cè acqua

Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
cè sempre un altro che ti cammina accanto
che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
io non so se sia un uomo o una donna
- ma chi è che ti sta sull'altro fianco?

Cosè quel suono alto nellaria
quel mormorio di lamento materno
chi sono quelle orde incappucciate che sciamano
su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata
accerchiata soltanto dal piatto orizzonte
qual è quella città sulle montagne
che si spacca e si riforma e scoppia nellaria violetta
torri che crollano
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
irreali

Una donna distese i suoi capelli lunghi e neri
e sviolinò su quelle corde un bisbiglio di musica
e pipistrelli con volti di bambini nella luce violetta
squittivano, e battevano le ali
e strisciavano a capo all'ingiù lungo un muro annerito
e capovolte nellaria cerano torri
squillanti di campane che rammentano, e segnavano le ore
e voci che cantano dalle cisterne vuote e dai pozzi ormai secchi.

In questa desolata spelonca fra i monti
nella fievole luce della luna, lerba fruscia
sulle tombe sommosse, attorno alla cappella
cè la cappella vuota, dimora solo del vento.
non ha finestre, la porta oscilla,
aride ossa non fanno male ad alcuno.
Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto
chicchirichì chicchirichì
nel guizzare di un lampo. Quindi unumida raffica
portatrice di pioggia

Quasi secco era il Gange, e le foglie afflosciate
attendevano pioggia, mentre le nuvole nere
si raccoglievano molto lontano, sopra lHimavant.
La giungla era accucciata, ingobbita in silenzio.
allora il tuono parlò
DA
Datta: che abbiamo dato noi?
Amico mio sangue che scuote il mio cuore
lardimento terribile di un attimo di resa
che unèra di prudenza non potrà mai ritrattare
secondo questi dettami e per questo soltanto noi siamo esistiti, per questo
che non si troverà nei nostri necrologi
o sulle scritte in memoria drappeggiate dal ragno benefico
o sotto i suggelli spezzati dal notaio scarno
nelle nostre stanze vuote
DA
Dayadhvam: ho udito la chiave
girare nella porta una volta e girare una volta soltanto
noi pensiamo alla chiave, ognuno nella sua prigione
pensando alla chiave, ognuno conferma una prigione
solo al momento in cui la notte cade, rumori eterei
ravvivano un attimo un Coriolano affranto
DA
Damyata: la barca rispondeva
lietamente alla mano esperta con la vela e con il remo
il mare era calmo, anche il tuo cuore avrebbe corrisposto
lietamente, invitato, battendo obbediente
alle mani che controllano

Sedetti sulla riva
a pescare, con la pianura arida dietro di me
riuscirò alla fine a porre ordine nelle mie terre?
Il London Bridge sta cadendo sta cadendo sta cadendo
poi sascose nel foco che gli affina
quando fiam uti chelidon - O rondine rondine
le Prince dAquitaine à la tour abolie
con questi frammenti ho puntellato le mie rovine
bene allora vaccomodo io. Hieronymo è pazzo di nuovo.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih sbantih sbantib


11 luglio 2016

Germania e orientalismo



Tänzerinnen - Emil Nolde




A partire dalla fine del Settecento crebbe in Europa l’interesse per le culture orientali, soprattutto relativamente all’India e al sanscrito.
Stando a quanto era solito dichiarare sir William Jones, forse con qualche semplificazione di troppo, il vecchio continente aveva imparato arabo e cinese grazie alla mediazione di olandesi e francesi, mentre doveva la scoperta del sanscrito agli inglesi. Jones fu tra i primi conoscitori e divulgatori della materia, occupandosi di raccogliere in modo sistematico alcune teorie che erano state formulate tra la fine del Cinquecento e il Seicento da missionari e mercanti che in quelle terre avevano prestato la loro opera. Pensiamo al fiorentino Filippo Sassetti, vissuto in India tra il 1583-’88, che nelle sue lettere annotò somiglianze fra alcune parole sanscrite e le corrispondenti in italiano, così come già dalla fine del Seicento si evidenziarono affinità tra l’antica lingua indiana, il greco e il latino.
Da Jones in avanti la linguistica comparata fissò le sue basi, trovando in Germania uno dei suoi terreni più fertili. Nacquero qui, infatti, numerosi istituti per l’insegnamento del sanscrito, e in generale quella propensione allo studio delle cose orientali che avrebbe conosciuto un significativo incremento nella seconda metà dell’Ottocento, quando si iniziò a fare di tali tematiche un uso politico. Dalla prima cattedra di sanscrito assegnata ad A. W. Schlegel presso l’università di Bonn nel 1818, i finanziamenti statali per le missioni all’estero e i centri studi in patria aumentarono sempre più, raggiungendo il loro massimo a inizio Novecento. Di una simile evoluzione della ricerca in senso funzionale al potere è emblematica la vicenda di Carl Andreas (1846-1930), dal 1903 professore di lingue asiatiche all’università di Gottinga, marito della nota scrittrice Lou Salomé. Costui, eclettica figura di intellettuale e viaggiatore, si dedicò agli studi orientali in una fase ormai “politicizzata” tanto che ne ebbe non pochi guai a livello personale, essendo poco incline a lavorare per finalità esclusivamente istituzionali. Pur in possesso di un ingegno brillante la sua carriera si sviluppò piuttosto tardi e non senza ostilità accademiche.
Mentre fin dagli inizi per gli inglesi l’interesse culturale si saldava su quello coloniale, i tedeschi si avvicinarono dunque all’orientalismo da un’ottica del tutto diversa. Dapprima fu uno sguardo filosofico, rivolto per certi versi alla politica interna e da questa, per così dire, destato. La passione per l’oriente crebbe in seno al romanticismo, coltivato nel famoso gruppo di Jena, animato dai fratelli Schlegel. Secondo questi intellettuali il massimo grado di romanticismo andava cercato in oriente, sorta di culla di una spiritualità originaria, la più profonda e autentica sperimentata dagli uomini. La Restaurazione arrestò il percorso delle riforme liberali, infrangendo i sogni di progresso nutriti fino a quel momento dai maggiori studiosi e letterati dell’epoca. Ciò spinse il tardo romanticismo a una sorta di fuga dalla realtà, cercando riparo nell’ideale dell’Heimat, la piccola patria incarnata dalla gente comune che appariva come risparmiata dal contagio dei fallimentari tentativi di rinnovamento storico. Ha quindi origine quel pathos nei confronti del Volk, il popolo, che oltre a ispirare un cospicuo filone di studi costituisce anche il primo seme di un nazionalismo di matrice etnica destinato, circa un secolo più tardi, a imprimere una drammatica svolta nelle vicende tedesche e nel resto d’Europa. Un dibattito che continua a segnare il passo pure in questo inizio di millennio, dove l’idea di popolo sembra farsi carico delle turbolenze sperimentate dalle democrazie occidentali. L’attuale dicotomia tra populismo e istanze popolari è largamente influenzata e viziata dagli orrori recenti, che hanno visto fascismo e nazionalsocialismo cavalcare le paure della massa. Il ricorso fin troppo frequente al concetto di populismo nei media o in un qualsiasi confronto politico denota questo complesso, ma anche soprattutto un abuso altrettanto ideologico, e dunque incline alla disonestà intellettuale, di pensieri verso i quali bisognerebbe invece essere molto meno prevenuti, onde evitare, nella foga di denunciarli, che in certe tesi d’opposizione non si facciano strada integralismi ben peggiori.
Sul piano degli studi la centralità riservata alla presunta genuinità del popolo, promosse in Germania la raccolta delle tradizioni mitologiche e lo scavo nei patrimoni folklorici. Valga a riguardo la celebre opera dei fratelli Grimm. Jacob Grimm (1785-1863), scopritore della legge sulla rotazione consonantica tedesca che porta il suo nome, è stato principalmente un linguista, oltre ad aver coadiuvato il fratello Wilhelm nel recupero delle più importanti fiabe del loro paese. Entrambi furono anche molto attivi nella diffusione del movimento democratico tedesco sfociata nei moti del ’48, repressi nel sangue dal regno di Prussia, di cui Theodore Fontane (1819-1898) darà conto in pagine autobiografiche assai intense, parlando di quei giorni vissuti per le strade di Berlino. La vicenda dei Grimm è la rappresentazione esatta del nodo di istanze politiche e culturali che si affacciano nella società tedesca tra l’inizio e la metà dell’Ottocento. Aspetto essenziale dell’immaginario romantico, si diceva, è la presunta purezza del sistema linguistico e filosofico-religioso indiano, con particolare riferimento al buddhismo. In una Germania in crisi d’identità nazionale risulta più che comprensibile la ricerca di un antenato da cui trarre piena legittimazione.
Alcuni dei filosofi di punta che hanno legato il loro nome alla storia della disciplina non solo in terra tedesca, ma più latamente in ambito occidentale, sentirono il bisogno di cimentarsi nell’approfondimento dei testi sacri indiani e, in alcuni casi, nella loro traduzione. Ciò favorì anche lo sviluppo di un interessante dibattito su virtù e difetti del tradurre, tema molto acceso oltralpe, che nel Novecento mostrerà ancora tutta la sua vitalità attraverso Walter Benjamin, autore del noto saggio sul compito del traduttore. Gli studi comparativi di W. von Humboldt (1769-1859), l’esaltazione della spiritualità indiana da parte di Schelling e Schopenhauer, lo scetticismo di Hegel che pure nel contestare l’entusiasmo romantico verso l’oriente, non si sottrasse alla discussione, la superiorità accordata da Nietzsche al buddhismo nei confronti del cristianesimo, destinata a tradursi in una nuova religiosità occidentale responsabile di una palingenesi del pensiero; tali assunti ci mostrano quanto pervasivo e influente sia stato l’orientalismo nella cultura tedesca. Desiderosa di essere ponte tra est e ovest, la Germania colse gradualmente negli studi asiatici l’opportunità politica di un riscatto del proprio prestigio culturale e lo strumento di una rigenerazione linguistica. Il tedesco, nel dialogo con le altre lingue, avrebbe accolto in sé «tutti i tesori della scienza e dell’arte straniere insieme a quelli propri», secondo F. Schleichermacher (1768-1834). Visione simile a quella espressa da Goethe circa una Weltliteratur, una letteratura mondiale in lingua tedesca, come si può evincere da una nota sulle traduzioni pubblicata alla fine del suo Divano occidentale-orientale (1819). 
Per la Germania, più ancora che per gli altri paesi europei, l’oriente è stato il fiume in cui placare la sete spirituale, ideologica e metafisica di un occidente stanco e prosciugato, ma anche lo specchio magico col quale cogliere un riflesso di sé. Il fervido dibattito attorno a simili materie svela, infatti, per intero la necessità di forgiare una definizione di se stessi per contrasto.


(Di Claudia Ciardi)



30 giugno 2016

Manuele Fior - I giorni della merla


L’album di Manuele Fior, pubblicato da Fandango nella collana “Maschera nera” diretta da Igort, è un lavoro ad alto voltaggio poetico. Concisione e velocità del segno, pur non sorvolando sui dettagli, incastonano i racconti in pochi tratti essenziali e donano al narrare una leggerezza ritmica alla quale fa da contrappeso l’affilata marcatura dei caratteri. Lo studio psicologico s’impone per la sua incisività, senza filtri né cornici. È un tutto intonato, giocato sul filo delle stonature che la quotidianità con le sue frizioni-allucinazioni getta addosso ai protagonisti, mettendoli impietosamente a nudo. Il che non è solo una condizione interiore ma qui, è il caso di dire, incarna la sua essenza tangibile. Il corpo invecchiato della professoressa in gita scolastica con qualche frustrazione di troppo, il soldato in trincea che schiacciato dagli incubi arriva a evirarsi, un Arnold Böcklin in crisi creativa che tenta di riprendersi con i bagni termali a Ischia, esperienza che precede di poco il suo capolavoro, L’isola dei morti.
Tutti qui sono gente comune. La professione, la divisa, la fama sono categorie assorbite dall’esigenza più profonda di scavare nella realtà solchi credibili con cui rimodulare il proprio sé in rapporto agli eventi. Questi volti ci scorrono sotto gli occhi in bilico tra alienazione e riscatto, polarità che Fior non risolve completamente, consegnando il dilemma al lettore. E proprio questa irresolutezza, che altro non è se non la sostanza di quel che si riverbera sulla contemporaneità, potenzia di molto il messaggio dell’autore. La nostra posizione all’interno delle dinamiche in atto non può essere certo decifrata ricorrendo a preconcetti ormai pavidi, perché sarebbe appiattire la complessità delle cose. Una complessità che non si presta alle forzature ma va accompagnata.   
Scopro, dunque, in quest’opera una certa dimestichezza con le tesi di Marc Augé legate ai dissidi tra luogo e nonluogo, cui guardano anche i recenti rivolgimenti politici che vedono la distribuzione degli elettorati esattamente lungo queste linee di faglia. «L’estensione dei nonluoghi […] ha già battuto in velocità la riflessione dei politici, i quali hanno finito con il non chiedersi più dove vanno, perché sanno sempre meno dove si trovano», così l’antropologo francese conclude il suo celebre saggio Non-lieux (1992). E le pressioni globali erano solo agli albori. Il nonluogo, contraddistinto da velocità, anonimia, ossessione spersonalizzante sarebbe la sintesi del contemporaneo, schiacciato in un contraddittorio con il luogo, lo spazio riconoscibile ma sotto assedio dell’identità. Se Augé auspica un’osmosi di tali aspetti, in grado di innestare nel nonluogo tracce di un’umanità non solo passeggera e omologata, è chiaro che attorno a simili processi, fin quando non abbiano definito le loro zone d’influenza, si accumulino innumerevoli tensioni.   
Due centri che stanno anche dentro di noi, orientando reazioni e, assai spesso, determinando fratture. Campi radiali destinati a un confronto serrato da cui sviluppare dialettiche nuove. Sono appunto le atmosfere dove la matita di Fior si muove disinvoltamente. Originario di Cesena dove nasce nel ’75, una laurea in architettura all’università di Venezia, residenze d’artista a Berlino, Oslo, Parigi, città che anche negli episodi qui raccolti mostrano la loro fronte conflittuale, quando non soccombono alla violenza delle lacerazioni. È il caso di Parigi scossa dagli attentati nel novembre 2015, di cui l’autore fotografa lo straniamento rabbioso e impotente dei giorni successivi alla strage. Uno scatto lucido, che si tiene lontano da ogni moralismo, sottolineando invece le divisioni etniche e sociali all’interno dell’organismo metropoli. Discorso approfondito in chiave allegorica nell’ultima narrazione, Gare de l’est. Un adulto e un bambino si tengono per mano mentre davanti a loro, in mezzo alle case, si consuma uno scontro feroce da cui escono miracolosamente indenni. Quasi una sessione d’analisi che tenta di elaborare il trauma.     
L’interesse per la letteratura tedesca, testimoniato dal suo adattamento a fumetti della novella di Arthur Schnitzler, La signorina Else, i riferimenti storici e antropologici, contaminano anche il suo sguardo sull’attualità, con l’attenzione riservata all’universo degli immigrati, le paranoie che ci tallonano, i rituali da cui non sappiamo affrancarci. Tutto ciò fa di Manuele Fior un autore versatile e completo, che dai temi di volta in volta prescelti sa distillare poesia con la disarmante schiettezza di uno dei suoi personaggi di strada.

(Di Claudia Ciardi)


Manuele Fior, I giorni della merla,
Coconino Press - Fandango, 2016


Arnold Böcklin, L’isola dei morti (Die Toteninsel), 1880-1886


Related links:

Dino Campana - Simone Lucciola, Rocco Lombardi, Giuda edizioni, 2011 (2015)

Quaderni ucraini - Igort, Coconino Press, 2010 (2014) 

Golem Stories - Sammy Harkham, Coconino Press, 2013 


19 giugno 2016

Mario Curnis e Simone Moro - In cordata


Tramonto sulle Orobie

Ognuno ha dentro di sé le sue montagne. L’immagine è meno scontata di quanto sembri. Anche senza arrampicare, ciascuno di noi nel corso della vita raccoglie delle sfide, coltiva sogni cercando di realizzarli. E questo è un po’ affrontare una scalata, anche se fisicamente non si va in vetta. Il che si presta anche a un’altra metafora, quella del mancato raggiungimento della meta. Bello è il viaggio, lo abbiamo imparato navigando con Ulisse. A volte si fa naufragio, altre ci si distanzia così tanto dall’obiettivo che crediamo di esserci smarriti. Eppure in nessun modo perdiamo qualcosa. Dai pericoli, che l’etimo latino ci dice sono prove, dal confronto con luoghi e persone lontani dai nostri spazi abituali s’impara sempre, scoprendo aspetti di noi che non conoscevamo o che magari avevamo messo in soffitta.
In queste settimane ho letto i due più bei libri sull’alpinismo che credo siano stati scritti in Italia nell’ultimo biennio: Il fuoco e il gelo di Enrico Camanni, edito da Laterza, che avevo iniziato a sfogliare sui tavoli del San Marco a Trieste, subito dopo averlo scovato nella libreria del caffè, e In cordata, scritto a quattro mani da Mario Curnis e Simone Moro, inaspettato regalo di qualche tempo fa.
Camanni ripercorre quella parte di storia alpina attraversata dalla mattanza della prima guerra mondiale, che se da un lato inaugura la fase moderna dell’esplorazione di montagna, celebrando il gesto atletico di coloro che osarono spingersi alla conquista dell’impossibile, dall’altro resta segnata in maniera indelebile dalla tragicità epica dell’evento. Quei giovanissimi, costretti a tenere la posizione su un fronte che aveva del surreale, dove ci si poteva perfino dimenticare del nemico, esattamente come gli uomini della Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari, furono protagonisti di imprese gigantesche per forza fisica, adattamento, resistenza. Allorché il terreno di scontro s’infiammava, volendo sopravvivere, servivano il doppio dei nervi saldi e una fortuna sfacciata. L’autore ricostruisce numerosi di questi episodi, affiancandoli alle biografie dei loro silenziosi protagonisti, al centro di alcune tra le pagine più sconvolgenti con cui si inaugura il Novecento e forse, senza la preziosa ricognizione di Camanni, anche misconosciute. Sopra i tremila si tirava a campare, ogni tanto si sparava, più spesso si moriva.
E poi ci sono le descrizioni dell’ambiente d’alta quota, autentici frammenti di poesia che la mano del giornalista cuce attorno ai fatti alternando plasticità a leggerezza minimale. Se Camanni stempera i registri dello storico ambientalista con altri più evidentemente letterari, a rifilare le narrazioni di Curnis e Moro pensa Angelo Ponta, già curatore dei volumi di Walter Bonatti, per un effetto del tutto simile. I ritmi serrati della cronaca incrociano cadenze a tratti più distese, addirittura assorte in un purismo descrittivo che la montagna coi suoi silenzi e il colpo d’occhio abbacinante dilata all’inverosimile. A essere sincera, mi sono decisa a leggere questi libri, non tanto per acquisire informazioni tecniche su come si porta a termine una scalata, ma con il proposito di trarvi quello spirito di avventura che ognuno di noi dovrebbe portare con sé, sempre, al di là che faccia cose estreme o meno. E qui si torna alla riflessione iniziale. Affrontare la quotidianità somiglia per certi versi ad aprire una via in parete. Se non riesci, il problema è tuo, non ci hai creduto abbastanza, non te lo sentivi quel tanto da spingerti su. Ma c’è anche un’altra considerazione, non meno rilevante, che accomuna questi due volumi. Chi si racconta prende le mosse da un’analisi della nostra epoca, affrettata, spesso avventata ma nel senso più deleterio del termine, senza slancio, semmai smaniosa di dimostrare a se stessa qualcosa per occultare le proprie sconvenienti, aride solitudini. Quando si vedono salire in baita giovani coppie arrivate lì non a piedi ma in Suv, il cui unico argomento di conversazione è lefficienza o meno del navigatore, e che guardano di continuo l’orologio perché di andare per sentieri non se ne parla nemmeno, al massimo si sta lì un paio d’ore a bere il birrozzo, lamentarsi della crisi economica, e poi si torna giù col quattro per quattro, perché la sera c’è la partita da guardare incastrati tra divano e televisione, si capisce che qualcosa nella cultura dei singoli ha fatto cortocircuito. Si dà meno importanza all’idea conviviale dello stare insieme, il tempo dedicato allo svago è percepito come perso, quasi un furto ai danni della martellante tabella di marcia che ci vuole sempre al pezzo; la condivisione delle proprie esperienze suscita imbarazzo, in molti casi perché queste semplicemente non sussistono – parlo dei più giovani che hanno carenze simili non solo per ragioni anagrafiche ma più ancora per pigrizia mentale. Gli autori non ne parlano con intento moralista, e tuttavia facendo entrare nel loro discorso temi di questo tipo, creano nel lettore l’esigenza di porsi delle domande.  
Prima che storie di montagna sono, dunque, storie di vita. Perché legarsi e salire insegnano a essere uomini, cosa che Mario Curnis, quasi con disarmante ovvietà, non fa che ripetere nelle sue memorie, avendo assunto questa convinzione a pietra angolare della propria esistenza. E, dico la verità, il libro sulla cordata di due grandi che hanno saputo cementare un’amicizia umana e sportiva su cui in pochi avrebbero scommesso, data la differenza generazionale, l’avevo desiderato più che altro per stringere tra le mani una testimonianza di Curnis, la leggenda. Senza nulla togliere a Simone Moro, ero curiosa di sentire cosa avesse da dire un signore vecchio stampo, che non ha voluto fare dell’alpinismo un affare. Devo ammettere, però, che nel corso della lettura Simone mi ha piacevolmente spiazzata. La sua voce si amalgama alla perfezione con quella di Curnis. Entrambi si completano in un modo che permette a chi legge di percepire tutto il loro affiatamento. Di Simone ho apprezzato moltissimo l’umiltà con cui racconta di essersi avvicinato alla montagna, restando umile anche dopo, quando ha raggiunto il successo, avviandosi con sicurezza verso il professionismo. Un riconoscimento che tuttavia stentava, anche a causa di malignità gratuite sulle quali Simone nel narrare il suo percorso non indugia, e basterebbe già questo a renderlo grande. Eppure, di nuovo, ci sprona alla riflessione. Ci si chiede come mai il parere – bisognerebbe dire pregiudizio – di certi soggetti che si sono fatti un nome più che per meriti personali per politica, e in tempi lontani, quando le cose anche politicamente si organizzavano in modo assai diverso, sia in grado di gettare un influsso così negativo sugli inizi di una persona, ritardandola, mettendola in cattiva luce, emarginandola, quando il giochino della provocazione con cui la si sarebbe voluta fiaccare ha ormai esaurito le batterie. Una cosa che purtroppo non vale soltanto nell’alpinismo, anzi; quello delle diffide, dei quartierini, delle contrade l’une contro l’altre armate è un malcostume molto esteso in Italia.
Di Mario Curnis si resta affascinati dalla coerenza, l’onestà, la schiettezza. Un grande uomo, prima che uno dei più forti alpinisti di tutti i tempi. Volontà da vendere, severa, intransigente anche verso se stesso. Ma la tempra di Mario, quella che gli ha permesso di arrivare dove è arrivato, sta proprio tutta qui. Se chi sfoglia i suoi ricordi non può trattenersi da dire “però peccato, uno con un talento così, rovinarsi per via del carattere”, ecco se uno deve fare un commento di questo tipo, lasci perdere la storia di Mario, che col calcolo e le furberie non c’entra nulla. Non vada neppure avanti, lo rispetti e basta. Davanti a un uomo che a sessantatré anni sfida e raggiunge tre vette da settemila metri nell’ex Unione Sovietica (spedizione Snow Leopard del 1999), l’anno dopo si cimenta nella traversata delle Orobie, e a sessantasei anni conquista finalmente l’Everest, salendo senza ossigeno e in un tempo record sulla montagna che gli era stata ingiustamente negata per ruggini personali con Guido Monzino, l’organizzatore della missione del ’73, insomma davanti a un gigante è preferibile restare in silenzio. Merito di Simone Moro è averci creduto, aver superato una volta di più i pregiudizi di chi, scuotendo la testa, scommetteva sul fallimento di quelle avventure a causa dell’età avanzata di Mario. Ma quando uno ha un fisico fuori dal comune, e una mente in grado di dirgli con lucidità quando è il caso di spingere e quando di rinunciare, hai voglia a prendere in giro. In base alla mia opinione da profana, visto che in montagna mi limito all’escursionismo, dove però me la sono cavata finora molto bene essendo una camminatrice infaticabile a dispetto del mio fisico minuto, l’avventura che mi ha colpito in maggior misura è stata proprio quella sulle Orobie, le cento montagne, un filamento roccioso che corre lungo tutta la bergamasca. Nel settembre del 2000, Simone e Mario, due funamboli a un passo dal cielo, hanno completato il percorso in tredici giorni, prima volta nella storia dell’alpinismo. Mi auguro che abbiano voglia di tornare a scriverne qualcosa, perché trovo che questa traversata abbia una specificità poetica tutta sua, una danza di eremiti di rara bellezza, che poter ripercorrere nei suoi movimenti insieme a chi l’ha eseguita sarebbe un dono incredibile.
L’altra immagine, di cui sono grata a Simone per avercela consegnata, è quella di Mario compagno di tenda di Andrei Molotov durante lo Snow Leopard del ’99. Per quanto non potessero intendersi, essendo l’italiano la sola lingua di riferimento di Mario, ma un italiano che abusa volentieri del bergamasco, ebbene i due la sera in tenda avevano una “conversazione”, tanto che si sentivano esplodere in continue risate. E la loro piena sintonia proseguiva poi nel lavoro giornaliero di scalata. Simili schegge di poesia meritano il rischio, la fatica e i sacrifici che la scelta di andare in parete comportano.
Ma a proposito di sacrifici, questa è anche una storia di donne. Le compagne altrettanto straordinarie di questi avventurieri chiosano il racconto con due memorie molto intense. Chi rimane a casa ha quasi più coraggio di chi parte. Le donne qui sanno essere pazienti, non far pesare troppo le loro preoccupazioni, insomma sanno aspettare, un’altra cosa che la femmina tecnologica, ultra emancipata, ma alla fin fine invece solo soccombente agli stereotipi che ha continuato a farsi appiccicare addosso, non è proprio in grado di concedersi. Il tempo dell’attesa. E con questo non intendo lo stare ferme a casa, finché l’uomo si decide a tornare – la donna dovrebbe però capire che non può lanciarsi sempre all’inseguimento, ognuno bisogna che abbia i suoi spazi; mi riferisco appunto alla capacità femminile di crearsi degli interessi propri, non dipendenti dal partner né tantomeno cuciti sulla sua persona. Non è facile, però l’affiatamento di una coppia passa anche e soprattutto da queste cose. Oltre che da un po’ meno tentennamenti maschili, certo. Questioni che sembrano elementari, e tuttavia al giorno d’oggi ci sfuggono in maniera clamorosa. Di nuovo, l’alpinismo è scuola di vita.
Il temperamento deciso, la grande forza di carattere che traspare dalla scrittura di Barbara Zwerger, moglie di Moro, dice moltissimo sulla capacità di essere moglie di un personaggio che sta sotto i riflettori senza però concedere nulla di quelli che sono gli spazi privati, senza svendersi insomma agli opportunismi del marketing. Lo stesso vale anche per Rosanna Giudici, la moglie di Curnis, la quale anzi è stata costretta ad affrontare certe situazioni aggrappandosi veramente alla sua sola tenacia che, è chiaro, ha trovato appigli sempre nuovi nell’amore per Mario. La foto della coppia immortalata in gioventù sulla cima della Presolana è secondo me emblematica. Lì Mario, molti anni dopo, supererà una fase difficile, il fallimento della propria ditta di costruzioni, una delle tante brutte storie di questa crisi fabbricata a tavolino, e la malattia, che in maniera non casuale si è manifestata in concomitanza di quello che per lui, abituato a ispirarsi a valori precisi, è stato un raggiro da vigliacchi. Insomma è un po’ come se sulla Presolana fosse cominciato tutto, e quindi non poteva accadere altrove che Mario riprendesse lentamente a vivere.  
Per quanto mi riguarda non provo simpatia per le persone che non sono disposte a rischiare nulla di se stesse. E questo non significa buttarsi a capofitto in cose estreme, tutt’altro. Mi riferisco a scelte, a volte un po’ radicali, che bisognerebbe avere il coraggio di fare, anche a costo di perdere per strada qualche certezza; che poi è solo illusione nostra quella di portarci le certezze nel taschino.
Nel caso delle donne tale contraddizione purtroppo si esaspera terribilmente. Indietro sul cammino dell’indipendenza, ma io preferisco chiamarla consapevolezza di sé, perché indipendenza non vuol dire nulla o quasi, sono, siamo ancora prigioniere di troppi schemi e paure. Così si finisce per interpretare molto male sia il ruolo di ragazze in carriera, sia quello di angeli del focolare. Dai discorsi di Rosanna e Barbara, che con semplicità hanno tirato a diritto senza impantanarsi in tanti ridicoli dilemmi femminili, traspare con evidenza imbarazzante proprio questo insegnamento.
Lo definirei un libro pulito, nel senso della chiarezza dei messaggi e per il fatto che i due narratori appunto giocano pulito. Non si raccontano per le loro imprese ma si tengono sempre qualche passo indietro. Eppure, se Simone Moro si mettesse a elencare tutti i suoi primati, ne avrebbe di pagine da riempire. Qui, invece, sono gli uomini a venirti incontro, con le loro debolezze, i loro fallimenti e le rinunce, tante, che però in alcuni casi hanno contribuito a risparmiare vite umane, compresa la propria. Senza strafare sono andati avanti nel rispetto della montagna, che sente con che spirito vai e decide se lasciarti salire. Perché, come dice Mario Curnis, l’uomo che sale è lo stesso che scende, non ha fatto nulla di più e nulla di meno, è sempre lui. A cambiare è il bagaglio delle sue esperienze, l’arricchimento interiore che può trarne, ma se pensa di essere diventato qualcuno solo perché è arrivato in vetta, non ha capito nulla.


(Di Claudia Ciardi)


Mario Curnis, Simone Moro
In cordata. Storia di un'amicizia tra due generazioni da zero a ottomila metri
a cura di Angelo Ponta,
Rizzoli, 2016  


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