Una volta, in un negozio di cianfrusaglie a Pescara, una vecchia cinese mi convinse a comprare una lunga gonna azzurra con delle balze di velluto che incorniciavano la stoffa, ravvivandola. A dire il vero, persuadermi non le costò un grande sforzo. Ho un debole per l’azzurro, e l’interesse per l’indumento si sommava all’unicità della circostanza. Girovagavo da due ore buone in certe vie laterali, dove il tempo pare depositarsi sui muri con maggiore fiducia che il suo tocco sia notato dal passante, e proprio là in fondo, da qualche parte, trovai la venditrice. Ricordo perfettamente la vetrata vuota con la gonna esposta al centro come una reliquia, e la luce opaca che stazionava in quel posto, una strana luce sospesa a mezz’aria. Fuori stava forse per piovere. La mano della cinese svolazzò sopra il bancone, a quell’ora in quell’atmosfera da sartoria dei poveri, il suo gesto fu come un imperativo al quale non mi potei sottrarre. Non so come, la gonna scese dal mezzo busto che avrebbe voluto imitare un manichino, e così spogliato, improvvisamente a disagio, quel trespolo sembrò sul punto di sbottare ora con me ora con la sua risoluta padrona. Per un attimo, tutta la vetrina fu in subbuglio, l’intera bottega parve affannarsi dietro il bel drappo che cambiava tetto. Non era una perdita indifferente né ebbi il coraggio di voltarmi per vedere cosa venisse in sua sostituzione. Un regno finiva, un altro iniziava. Anche per me sarebbe andata così, ma allora capitava che mi affidassi solo a quella vaga aspettativa su cui le cose scivolavano senza far trapelare nulla o quasi delle loro reali intenzioni con me. La gonna non è che l’abbia indossata così tanto, ma questo a modo suo rientrava nei patti. Comprarla aveva più che altro il senso di una necessità, avrebbe salvato l’istante in cui il luogo cercava di farsi ricordo, di assicurarsi la devozione della sua visitatrice.
Questo atto nato da un solitario pomeriggio pescarese, non ha di certo inaugurato la mia inclinazione per la bizzarria degli abiti e perfino per alcuni travestimenti. Ho sempre accordato volentieri a stoffe, vesti, maschere, copricapi buona parte delle mie simpatie, ovunque mi trovi a passeggiare, e più ancora so di averne destinate ai loro custodi, in genere donne e uomini lunatici, poco avvezzi alla compagnia.
Ricordo di essermi letteralmente beata a guardare una berlinese allo Spittelmarkt provarsi e riprovarsi un cappotto nero, un vecchio capo sicuramente usato, stretto in vita, con grandi bottoni disposti su due file, finemente ricamati sul petto; quel banco di robivecchi, dove il proprietario con grazia di altri tempi si faceva prontamente specchio, assecondando i leziosi movimenti delle clienti, mi suggerì una timida idea di femminilità sfuggita per miracolo alle sale adamantine di boutique al neon. E ricordo alla perfezione con quale stupore, in una calda estate della mia città, mi sono trovata davanti a un banco pieno zeppo di colbacchi. Sarebbero bastati per qualche memorabile pagina di Gogol’, mentre erano venuti a spiaggiarsi in un’assolata città, che nulla aveva in comune con gli inverni pietroburghesi. Era più o meno il tempo dei “russi”, la gente chiamava così i mercatari dell’est Europa che per qualche stagione si riversarono nelle strade del sud, col proposito di dar vita a un piccolo commercio e garantirsi modesti guadagni, dopo anni di isolamento dall’altro lato del muro. Si tiravano dietro orologi, radio portatili, torce, marchingegni e attrezzi di ogni tipo, e l’andirivieni di tali carovane, sotto i loggiati del centro e anche sulle vie del litorale, non durò poco. Mi accadde con mio padre di trattare il prezzo di una lente, e quando l’affare fu sul punto di concludersi, il tizio della bancarella, con un’espressione alquanto enigmatica, mi allungò una moneta d’argento con l’effigie dell’imperatrice dei Boxer – ma a quell’età non avevo la più pallida idea di chi o cosa rappresentasse. Era una gran bella moneta, disse che me l’avrebbe data per poche lire in più e io non ci pensai un attimo a intascarla. Mio padre non fece parola, limitandosi ad assecondare la mia decisione. Quando però mi spiegò la storia, trasalii. Quel venditore aveva inteso burlarsi di me? Il mio primo incontro con la Cina fu dunque in un improvvisato mercatino di città, attraverso le mani di un “russo” che era più probabilmente un polacco, che mi vendette la moneta di una sanguinaria. Caspita. Forse è anche per questo che in seguito, quando ho avuto a che fare con delle cinesi, fossero commesse di un negozio, cuoche gentili che mi mettevano sul tavolo un anellino o un portafortuna, pazienti in fila dal mio medico, e perfino nelle lettere che da universitaria scambiavo con una studentessa di Wuhan, mi ha sempre colta la sensazione di trovarmi davanti delle agguerrite visionarie, e le loro fugaci apparizioni hanno finito per accrescermi questo sconcerto. Tutta colpa di un polacco che ha voluto giocare con me a testa o croce.
Per carnevale invece andavo da una matta che viveva in uno sgabuzzino dietro una delle piazze del centro. Mia madre mi sgridava ma entrare lì mi serviva, sì “mi serviva”, era proprio quello che le dicevo, e puntualmente sentivo la voce alzarsi e inseguirmi sulle scale. Le mie caviglie però erano più veloci, mi buttavo giù a capofitto e in un baleno ero dentro quel terribile bugigattolo, dove la puzza di umidità albergava senza rimedio e i vestiti si davano manforte a moltiplicare sotto ogni aspetto il fastidio e l’inquietudine. Questa tizia, appartenente a un anarchico e assai creativo meticciato pisano, razza ormai quasi del tutto scomparsa, a febbraio noleggiava costumi e il resto dell’anno lo passava a cercarli. Non riesco proprio a capire come tirasse avanti. Dopo alcune spedizioni andate a vuoto, ci trovai anch’io il mio indumento, e la pratica del noleggio nelle mani di questa anarchica divenne una volteggiante cerimonia, senza capo né coda. Mi rifilò un biglietto che andò subito perso, era bellissimo vedere come si sforzava di dare ufficialità alla cosa senza riuscirci. “Allora ricordatelo”, fu il massimo della puntualità con cui mi congedò. Quel posto nella mia fantasia contava assai più di qualcosa, ed era ancor più prezioso per un motivo che ho capito dopo, crescendo. Dimostrava che sopravvivere si poteva, eccome, che ci si poteva salvare e anche redimere, rivendicando il proprio nome a se stessi, tenendo fede a un carattere indocile, furioso se vogliamo, se quello che ci costringe è sbagliato se il prezzo che comporta ci rende uguali e irrimediabilmente perduti.
È stata poi la volta di un fantasma. Esattamente, un fantasma. Per un po’ ho cambiato città, conosciuto nuove persone, e in questo via vai la sorte mi ha regalato uno dei suoi cenni più bizzarri; sulle prime pensavo si trattasse di un’altra burla ma la costanza con cui questa sagoma bianca mi ha fatto visita, mi ha costretta ad accantonare l’idea. Già al mio arrivo – era di novembre, una domenica – la donna con indosso un lenzuolo mi è guizzata al fianco, il viso coperto di biacca, tra le mani un piattino per le elemosine. La sua presenza è rifluita in me come l’acqua di un temporale nelle grondaie delle case; da quando ci siamo incrociate, l’ho sentita uguale al morbido tamburellare che fa la pioggia, quando è vicina a smettere. L’ho avvistata poi tante altre volte, e nessuna mi è mai rimasta indifferente, per il mio umore, l’ora, la situazione.
Ultimamente penso però che si sia messa addirittura a seguirmi. Ma questo sarebbe troppo, o magari potrebbeanche essere. La verità è che non sono sicura sia lei. Mi pare ben strano, non ha mai osato tanto, la sua distanza è ciò che me l’ha resa superba. E lei lo sa. Ora che è sulle mie tracce, ho quasi l’impressione che mi abbia tradita. Sentirla parlare è stata una tortura. No, tu non puoi parlare. Ma se parla, significa che è arrivato il momento di passare le consegne. Ha ragione, non ne potrà più di star dietro alle mie contraddizioni. In fin dei conti ha adempiuto magnificamente ai suoi compiti. Non ho da rimproverarle nulla.
E date le circostanze, desidero che la cosa faccia il suo corso.
(Testo e foto di Claudia Ciardi)